Doveva essere una semplice cena, un’occasione per incontrare quegli amici che si erano sparpagliati per luoghi lontani e che era difficile incontrare una sera per un aperitivo e fare quattro chiacchiere. Massimo, come al solito, si era impegnato per riunire quella compagnia che era cresciuta assieme nel quartiere. Era quello che aveva la forza di mantenere unite tutte le connessioni. Dago si era convinto ad andare quasi controvoglia, stanco dopo un periodo di lavoro che gli aveva prosciugato ogni energia sociale. C’era in lui quella sensazione tipica di chi preferisce la solitudine ma sa di dover resistere alla tentazione di rinchiudersi nel proprio guscio.
Lentamente il gruppo si era formato, accumulandosi come gocce di pioggia che si rincorrono sul vetro fino a formare un rivolo consistente. In mezzo c’era gente che conosceva – facce familiari che sollevavano in lui quel misto di conforto che danno le abitudini e gente che non conosceva, nuovi compagni, compagne e amici di amici, comunque tutti accomunati da una simpatia superficiale che lubrificava i rapporti senza pretendere troppo. Come al solito stavano aspettando che arrivasse Massimo, il solito ritardatario che, poverino, era dovuto passare a prendere degli amici. Dago si era appoggiato con la schiena al muro esterno del locale, lasciando che la fresca brezza serale gli scivolasse sulla pelle, osservando con distacco quella socievolezza forzata che non gli apparteneva.
Quando Massimo arrivò, erano ancora tutti fuori dal locale a chiacchierare e fumare, aspettando che finissero di preparare il tavolo. Dago non si aspettava che ci fosse lei. Istintivamente ad “amici” aveva associato maschi – quelle presenze che occupano spazio senza modificare l’aria attorno. Quando lei apparve sulla scena, per un attimo gli parve non ci fosse nient’altro. Il tempo sembrò dilatarsi. Il chiacchiericcio diventò in un sottofondo, trasformandosi in un rumore bianco, indistinto. I contorni degli altri corpi si sfocarono, mentre lei emergeva dalla nebbia con una nitidezza dolorosa. Poi i loro occhi si incrociarono, e qualcosa scattò dentro Dago, come un interruttore dimenticato che improvvisamente riattiva un circuito.
“Tu devi essere Dago,” disse con voce morbida ma decisa. “Massimo mi ha parlato così tanto di te che mi sembra quasi di conoscerti. Piacere, io sono Roberta.”
Si strinsero la mano, una stretta sicura, piacevole, lontana da quelle molli e distratte che Dago detestava. Per un istante restarono a fissarsi negli occhi, ed egli si sentì scrutato, catalogato, misurato da quello sguardo intelligente. Dago era ipnotizzato dai suoi occhi così caldi, di un castano intenso che sembrava contenere scintille dorate quando la luce li colpiva da una certa angolazione. Percepì una corrente di familiarità inaspettata, come se qualcosa in lei risuonasse con una parte di sé rimasta a lungo silente. Poi il caos della compagnia li travolse, separandoli come due foglie strappate via dallo stesso ramo da un colpo di vento che le faceva cadere lontame.
Stordito, inebetito, con la mente ancora avvolta nell’aura del loro breve incontro, vagabondò per il locale senza meta né proposito. Si accorse che i più furbi avevano trovato da mangiare e, ascoltando il suo stomaco vuoto che protestava, si sedette con loro rimpinzandosi con i primi stuzzichini a portata di mano. Mossa fatale. Improvvisamente tutti arrivarono a tavola con quella fretta caotica che accompagna sempre questi raduni, e si trovò lontano da lei, impossibilitato anche solo a guardarla, seduta dalla parte opposta del tavolo. Una barriera di corpi e voci lo separava da lei, e sentì crescere in sé un’irrazionale frustrazione.
Ma le loro cene erano piuttosto movimentate, un flusso costante di spostamenti e rotazioni che sembrava seguire leggi matematiche del caos. Prima ancora delle ordinazioni, con la scusa dei saluti e di fare quattro chiacchiere, la tavolata era stata rivoluzionata almeno due volte e, improvvisamente, come se qualche forza invisibile avesse riorganizzato l’universo per favorirlo, lei era seduta al suo fianco. Casualità? Destino? Forse, ma Dago notò in lei una sicurezza nei movimenti che suggeriva intenzionalità – le donne, rifletté, sanno muoversi con molto più tatto e scaltrezza in questi labirinti sociali, fu il pensiero che gli attraversò la mente.
La cena fu divertente e interessante, passata quasi esclusivamente a parlare con lei, un’isola di conversazione intima in mezzo al caos collettivo. Le loro parole creavano una bolla invisibile, che occasionalmente si espandeva per includere quelli attorno a loro, ma poi, inevitabilmente, tornava a restringersi fino a contenere solo loro due. Avevano parlato di un sacco di cose con quella facilità che nasce quando due menti si riconoscono: piacevolmente e scherzosamente, anche quando non erano in accordo, scoprendo nel contrasto delle opinioni un terreno ancora più fertile per l’intesa.
Dago non sa come, ma tra il dolce e il caffè, in uno di quei momenti magici in cui il mondo sembra cospirare per creare opportunità, Roberta era finita seduta sulla sua sedia, tra le sue gambe. Si erano formati diversi gruppetti intorno al tavolo, piccole costellazioni di conversazioni separate, e loro erano stati coinvolti da Massimo e da altri amici in una piacevole conversazione, continuando a parlare, avvolti in un involucro di intimità che li proteggeva dagli sguardi esterni.
Parlando e gesticolando, senza nessuna premeditazione, come se fosse guidata da un’intelligenza autonoma, la sua mano, al posto di appoggiarsi sulla propria coscia, si era appoggiata sulla coscia di lei. Il contatto, anche attraverso il tessuto leggero, mandò una scossa di piacere lungo il braccio di Dago, un’onda elettrica che risalì fino alla base del collo. Roberta aveva per un istante interrotto il discorso che stava facendo, e i suoi occhi avevano avuto un lampo – non di sorpresa, ma di riconoscimento, come se avesse atteso quel gesto. Ma nulla fece o disse perché lui spostasse la mano, un silenzio che era un invito più eloquente di qualsiasi parola.
Quando Dago, seguendo quell’impulso primordiale che fa muovere i corpi verso ciò che desiderano, appoggiò la mano anche sull’altra coscia, Roberta non fece altro che controllare distrattamente l’eventuale reazione gli altri, un gesto di prudenza, non di esitazione. Continuando a parlare come se nulla fosse successo, ma con una voce che aveva acquistato una tonalità più bassa, appoggiò le proprie mani su quelle di lui, iniziando a farle scorrere sulle cosce in un movimento appena percettibile ma carico di intenzioni.
Dago stringeva le mani quel tanto che bastava per conoscere meglio la forma di lei, per esplorare attraverso il tatto quei contorni che gli occhi avevano solo intuito. Cercava nello stesso tempo di tirarla maggiormente contro di sé, desideroso di sentire il peso del suo corpo contro il proprio. Sentì Roberta allargare leggermente le gambe, un movimento minimo ma che conteneva un universo di significati. Non resistendo al richiamo di quel segnale, al linguaggio silenzioso del desiderio che iniziava a parlare attraverso i loro corpi, lasciò che entrambe le mani scivolassero dalle ginocchia verso l’interno delle cosce, un percorso ascendente che culminò nel toccare, sfiorare velocemente il suo sesso.
Una parte di sé era come catapultata in un’altra dimensione, un luogo primitivo dove esistevano solo sensazioni e desiderio, dove erano soli loro due, corpi che si cercavano nell’oscurità. L’altra parte era pienamente consapevole di essere seduto ad una tavolata di amici, in un ristorante pieno di gente, con tutte le convenzioni sociali che questo comportava. Ma le sue mani erano sotto il tavolo, nascoste dalla lunga tovaglia, al riparo dagli sguardi, e oramai nel suo sangue stava scorrendo qualcosa di molto più forte dell’adrenalina – una miscela chimica antica come la specie umana, che trasformava ogni pensiero razionale in puro istinto.
Lasciò che le sue mani scivolassero maggiormente sotto la gonna di lei, in un’esplorazione che era anche una conquista, entrando finalmente in contatto con la sua pelle, calda e liscia, puntando direttamente al suo sesso con l’inevitabilità di un fiume che cerca il mare. La sua mano si appoggiò sulle sue mutandine di seta, percependo il calore che trasudava attraverso il tessuto umido. La sentì fremere per un istante, un microscopico sussulto che tradiva l’intensità delle sue sensazioni. La sua mano avvolse tutto il suo sesso, accarezzandolo e stringendolo nello stesso tempo, in un gesto che era insieme possesso e adorazione, mentre tentavano entrambi di proseguire la conversazione come se nulla fosse, le voci che mantenevano un tono normale mentre i corpi comunicavano in un linguaggio molto più antico.
Roberta si appoggiò meglio a lui, arrendendo il peso del suo corpo contro il suo, cercando di strusciarsi contro di lui, cercando di sentire la sua erezione, un contatto che per entrambi era fonte di un piacere così intenso da rendere difficile evitare di mordere le labbra per non tradirsi. La mano di Dago trovò una via per scivolare sotto le mutandine, trovando il suo sesso completamente rasato, la pelle liscia e bagnata che lo accolse come un guanto di seta calda. Un brivido di eccitazione gli percorse la spina dorsale fino alla nuca. Roberta sentì il suo cazzo indurirsi ancora di più contro di lei, mentre le dita di lui esploravano la sua intimità con lentezza e curiosità.
Improvvisamente il caos della compagnia li travolse – qualcuno che si alzava, qualcuno che chiedeva attenzione, il cameriere che portava altro vino – rompendo l’incantesimo e separandoli, costringendoli a tornare nel mondo ordinario delle convenzioni sociali. Si guardarono per un istante, complici, con gli occhi carichi di promesse non dette.
In quelle occasioni mille erano le cose che volevano raccontarsi e chiedersi, c’erano storie da condividere e persone da salutare. La serata aveva una sua dinamica che non poteva essere ignorata. Dago non poteva pretendere che fosse tutta per lui, che quelle parentesi di intimità rubate potessero estendersi a coprire l’intera serata. Ma niente poteva impedirgli di desiderarla, di sognarla, di immaginare scenari in cui quella connessione interrotta potesse trovare compimento.
Con la sua erezione che non accennava a calare, imprigionata nei pantaloni come un animale in gabbia, uscì in cortile fumando nervosamente, cercando nell’aria fresca della sera un antidoto a quel desiderio che gli bruciava nelle vene. Sentiva ancora nel palmo delle mani il calore della sua pelle, la consistenza umida del suo sesso; sentiva nelle narici il suo profumo, quel mix di note floreali e femminilità eccitata che sembrava impresso nei suoi sensi come un marchio di fuoco.
La sua passeggiata lo aveva portato nell’angolo più tranquillo e nascosto del giardino estivo, un rifugio verde di ombre e silenzi, vicino le toilette esterne, adeguatamente celate alla vista di chi mangiava fuori, oggi nessuno. Il cuore gli batteva ancora con forza, un rullo di tamburi tribali che rimbombava nella cassa toracica. Si accorse di avere bisogno di fare una breve sosta, più per raccogliere i pensieri che per necessità fisiologiche. Aprì la porta e iniziò a cercare a tastoni l’interruttore, le dita che sfioravano la parete fredda e ruvida, quando sentì qualcuno che con delicata decisione lo spingeva dentro il bagno.
“Lascia la luce spenta.” Il suono della sua voce, un sussurro caldo e imperioso, precedette il suo profumo – un mix di note agrumate e qualcosa di più carnale, qualcosa che parlava direttamente al suo istinto. Quel profumo lo avvolse come una seconda pelle, penetrando nei suoi sensi, riscrivendo momentaneamente la mappa del suo desiderio. Dago si girò mentre la sua erezione ricominciava a pulsare gioiosa, un animale selvaggio che si risveglia al richiamo del proprio territorio. Fu travolto dal suo corpo, dalla sua presenza che sembrava occupare ogni molecola d’aria nello stretto spazio.
Le loro bocche si trovarono nel buio con una precisione quasi soprannaturale. Le labbra di lei, morbide ma determinate, premettero contro le sue con un’urgenza che rispecchiava la sua. Le loro lingue si avvinghiavano vorticosamente, sfidandosi e cedendo a turno, in una danza primitiva di possesso e abbandono. Le loro mani, diventate creature autonome guidate solo dal desiderio, correvano sui corpi, sotto i vestiti, cercando il contatto con la pelle come se fosse l’ultimo elemento necessario per completare un incantesimo.
Dago aveva alzato la gonna di Roberta, sentendo sotto la pelle calda delle cosce, fino a incontrare la curva perfetta delle natiche. Strizzava e palpava le sue chiappe con un misto di reverenza e avidità, sentendole sode e morbide allo stesso tempo, mentre lei, con una destrezza che tradiva desiderio e decisione, gli aveva già slacciato e sfilato la camicia dai pantaloni. Le sue dita piccole ma determinate stavano ora armeggiando con la chiusura dei pantaloni, impazienti di liberare ciò che sentiva premere contro di sé. Nel buio i loro occhi, luccicanti di passione, brillavano come quelli di animali notturni, adattandosi alla fioca luce che entrava dal lucernario per non perdersi nemmeno un dettaglio dell’altro.
Sentì la sua mano scivolare dentro i boxer, fredda contro la sua carne bollente, e impugnare il cazzo con una presa sicura, stringendolo per gustarne la consistenza, misurarne la durezza, valutarne il potenziale di piacere. Brividi riempirono il suo corpo, partendo dal basso ventre e irradiandosi fino alla punta delle dita, e quasi lui le venne in mano per l’eccitazione – un rischio reale, considerando quanto l’aveva desiderata dalla prima occhiata. Poi la sentì scivolare con la bocca lungo il suo corpo, un percorso discendente che lasciava una scia umida di saliva e respiro caldo. Sentì la sua lingua sul collo, indugiare sulla carotide dove poteva sentire il battito accelerato, poi sul petto, passando sui capezzoli con un’attenzione che gli strappò un gemito rauco. E mentre arrivava sull’addome, seguendo la linea sottile di peli scuri che si infittiva verso il basso, le mani di lei, con un movimento deciso ma fluido, gli sfilarono completamente i pantaloni e i boxer, liberando finalmente il suo membro da quella costrizione dolorosa.
In ginocchio davanti a quell’erezione, Roberta iniziò ad accarezzarlo, a guardarlo, a massaggiarlo con una concentrazione che aveva qualcosa di religioso. Le sue dita esploravano ogni venatura, ogni dettaglio anatomico con la precisione di chi studia un oggetto prezioso. Se lo passò sul viso, baciandolo dolcemente, in un gesto che era insieme dominazione e sottomissione, una preghiera carnale che faceva tremare entrambi. Nel silenzio quasi sacrale della stanza, rotto solo dal fruscio dei vestiti e dai respiri sempre più accelerati, si sentiva solo il respiro affannoso ed eccitato di Dago, un ritmo che seguiva quello delle carezze di lei.
Lei continuava calma, metodica nella sua adorazione, leccandolo piano, tutto, senza nessuna fretta, senza trascurarne un millimetro o una piega, dalla base solida delle palle fino alla punta sensibile del glande. Il corpo di Dago tremava nel tentativo di ritardare il più possibile l’orgasmo, muscoli tesi nello sforzo di contenere un piacere che cresceva a ondate sempre più ravvicinate, ma oramai sentiva le palle frizzare, bruciare, dalla voglia di schizzarle in faccia tutto lo sperma che contenevano, di marcarla con il suo odore più intimo. Stava per supplicarla, per confessare che non avrebbe resistito ancora a lungo a quella deliziosa tortura, quando sentì il calore umido delle sue labbra appoggiarsi sul glande, e poi schiudersi appena, appena abbastanza per accoglierlo. Con le mani gli afferrava i glutei, tirandolo a sé con forza ma anche con gradualità, spingendosi in bocca, piano piano, il membro che pulsava di vita propria, lasciando che le labbra avvolgessero la sua asta come avrebbero fatto le labbra della sua figa, umide e strette e calde.
Dago estasiato si lasciava guidare, abbandonandosi completamente a quel piacere che cresceva come una marea, sentiva che ogni volta lei lo spingeva sempre più dentro, lasciando che il suo cazzo strofinasse sulla lingua morbida e ruvida allo stesso tempo, fino a che il glande non le arrivò in gola, toccando quel punto sensibile che in qualsiasi altra avrebbe provocato un riflesso di rigetto. Se lo tenne per qualche istante tutto in bocca, dimostrando un controllo che veniva solo dalla pratica e dal desiderio, mugolando di piacere quasi fosse un mantra, una nota bassa e vibrante che si trasmetteva attraverso la carne al suo cazzo, facendolo quasi impazzire di piacere.
Perdendo il controllo, travolto da un’ondata di desiderio primordiale, prese la sua testa tra le mani, con forza ma senza brutalità, le dita che affondavano nei capelli setosi, iniziando a scoparla in bocca con spinte che partivano dai fianchi e coinvolgevano tutto il corpo. Lei lo lasciò fare, partecipando attivamente a quel gioco di potere, succhiandolo con tutte le forze, giocando con la lingua che s scivolava sull’asta, e dopo poco, nonostante i deboli tentativi di resistere, di prolungare quel piacere intenso, le sborrò in bocca, un fiotto caldo e abbondante che sembrò non finire mai.
Roberta non volle perdersi nemmeno una goccia di quel nettare salato, continuando a pompare, a succhiare fino a che non fu certa che non ne era rimasta nemmeno una goccia, come un’adoratrice di qualche divinità pagana che raccoglie ogni stilla di offerta sacra. Si pulì le labbra con un dito, in un gesto che era insieme pratico e profondamente erotico, succhiandolo poi per assaporare anche l’ultima traccia del suo piacere, prima di scivolare sensualmente verso l’alto, fino a baciare le labbra di Dago, ancora perso in quel limbo di estasi e piacere in cui le sensazioni sono così intense da sembrare allucinazioni. Ma quando sentì le dita di lei avvinghiare nuovamente il suo fallo, con una presa che era insieme domanda e promessa, si sentì trasportare violentemente nella realtà, e con piacere si accorse che il suo cazzo rispondeva brillantemente agli stimoli, tornando rapidamente alla vita come se non avesse appena vissuto un orgasmo devastante.
Con un movimento che tradiva un’urgenza difficile da spiegare, infilò le mani sotto la sua gonna iniziando a sfilarle il tanga con impazienza, scoprendo che Roberta lo lasciava fare, anzi, collaborava per facilitargli il compito. La fece sedere sul bordo del lavandino, un piedistallo improvvisato ma perfetto per il suo corpo, sfilandole completamente il piccolo indumento di pizzo mentre la fissava negli occhi, quegli occhi che anche nel buio brillavano di lussuria e complicità. Senza staccare gli occhi dai suoi, in un contatto visivo che era un’altra forma di penetrazione, lasciò scivolare le mani sotto la gonna, accarezzando con cura tutte le gambe, le cosce, percorrendo quella strada che portava al suo sesso con la lentezza di chi sa che la destinazione merita tutta l’attenzione possibile.
Raggiunse la sua figa solo quando lei, incapace di contenere oltre il desiderio, aveva allargato completamente le cosce, un invito che era quasi una supplica. Iniziò ad accarezzarla con la punta delle dita, un tocco leggero e preciso, seguendo il contorno delle labbra già gonfie di sangue e desiderio, cercando la clitoride che sporgeva dalla sua protezione come una piccola perla. Il pompino che gli aveva fatto l’aveva eccitata parecchio – si vedeva, si sentiva, si assaporava. Era un lago di umori, i suoi fluidi che scintillavano appena nella penombra, rendendo ogni carezza scivolosa e perfetta. Ne sentiva anche il forte odore, un profumo muschiato che aumentava il suo desiderio come un afrodisiaco naturale, il profumo più antico che un uomo possa conoscere.
Lasciò scivolare le dita tra le sue cosce bagnate, andando a sfiorare il buchino dell’ano, quell’apertura nascosta che prometteva altri piaceri, prima di infilarle lentamente dentro di lei, penetrandola con precisione e controllo, sentendola vibrare di piacere attorno alle sue falangi.
Allora, con teatrale lentezza, prolungando quell’attesa che è parte del piacere, le alzò la gonna fino alla vita, scoprendo quel tesoro che le sue mani avevano già esplorato, e iniziò a leccarla, tuffando il viso in quella fonte di piacere come un uomo assetato che trova un’oasi. Roberta, in bilico sul lavandino, si teneva con una mano al bordo freddo della ceramica, usando l’altra per premere la sua testa con forza sul suo sesso, guidandolo dove più desiderava essere toccata e leccata.
Dago alternava veloci colpi di lingua sul clitoride, saette elettriche che la facevano sussultare ogni volta, a lunghe e lente leccate che coprivano tutta la vulva, un movimento ascendente che raccoglieva ogni goccia di piacere, senza dimenticarsi di affondare spesso la lingua dentro di lei, mimando con quest’organo morbido e duttile ciò che il suo sesso avrebbe fatto presto.
Aveva una gran voglia di farla godere così, di sentirla tremare e sciogliersi sulla sua lingua, ma anche una terribile voglia di possederla, di affondarsi in lei fino a perdere la cognizione di dove finiva il suo corpo e iniziava il proprio. Il desiderio era diventato una creatura autonoma, qualcosa che abitava in entrambi e li guidava verso il suo stesso appagamento.
Si alzò in piedi, dominandola con la sua altezza, e con movimenti rapidi e precisi le sfilò la maglia e il reggiseno quasi freneticamente, impaziente di scoprire quel corpo che aveva solo intuito. Le accarezzò poco delicatamente i seni – mani da uomo su carne da donna, un contrasto che conteneva l’essenza del desiderio, le strinse i capezzoli, duri, che sembravano rispondere al suo tocco indurendo ancora di più. Lei lo avvinghiò con le gambe, tirandolo a sé con un’urgenza che parlava di un desiderio troppo a lungo contenuto. I loro sessi si strofinavano l’uno contro l’altro, si cercavano come magneti di polarità opposta, inevitabilmente attratti.
Dago impugnò il suo membro, guidandolo con decisione e precisione verso quell’apertura che lo chiamava, e con una spinta decisa entrò dentro di lei, sentendo la carne calda avvolgerlo, accoglierlo, stringerlo. Si aggrappò alle sue tette, usandole come punti di appoggio, e iniziò muoversi, cercando di dare intensità e ardore alle sue spinte, ma la posizione non sembrava delle migliori, limitava il movimento, impediva quella profondità che entrambi cercavano. Allora, guidato dall’istinto più che dal pensiero, la prese in braccio con un unico movimento fluido, senza uscire da lei. Roberta si aggrappò a lui con le braccia e con le gambe, come una naufraga che trova l’unico appiglio possibile, fondendo i loro corpi in una scultura di carne e desiderio. Lui, facendo forza con le braccia, sostenendola con una facilità che in altri momenti l’avrebbe sorpresa, cercava di muoverla più velocemente possibile su e giù lungo la sua asta, cercando, ad ogni colpo, di penetrarla sempre più profondamente, di toccare quel punto segreto dentro di lei che avrebbe portato il piacere oltre i confini conosciuti.
“Vengo… sto venendo…” La voce di lei, rotta dal piacere, era poco più di un sussurro rauco, ma per Dago fu come un comando imperioso. Sentendo queste parole, percependo il corpo di lei che iniziava a irrigidirsi nei primi spasmi dell’orgasmo, cercò di accelerare ancora di più il ritmo, spingendo in lei con tutta la forza che riusciva a radunare. Le braccia gli dolevano dallo sforzo, i muscoli bruciavano protestando, ma l’intensità dell’orgasmo di lei, che sentiva crescere e espandersi come un’onda, lo riempiva di energie rinnovate, di una forza che non credeva di possedere. Non smise di muoverla lungo il suo cazzo per tutto l’orgasmo, continuando a penetrarla mentre lei si scioglieva in spasmi sempre più intensi, godendo dei suoi umori che gli colavano sulle palle, una doccia di femminilità che era la ricompensa più dolce.
Roberta si stringeva a lui convulsamente, il cuore che martellava contro il suo petto, il respiro che usciva in piccoli ansimi caldi contro il suo collo. Restando fermo dentro di lei la teneva stretta a sé, le mani che le accarezzavano la schiena sudata, le labbra che le sfioravano la tempia. In quel momento di quiete post-orgasmica, i loro corpi sembravano fusi in un’unica creatura pulsante.
“Tu non sei venuto…” gli disse con un filo di voce che era più una promessa che un’accusa.
“Vorrà dire che vengo tra poco.” Le rispose con voce roca, il desiderio che già riprendeva a scorrergli nelle vene come lava.
La sfilò da sé e la fece girare con un movimento deciso, quasi brusco. La spinse in avanti, obbligandola ad appoggiare le mani al lavandino. Nel buio, la curva della sua schiena era una tentazione irresistibile.
Quasi le strappò la gonna nella foga di spogliarla del tutto, rivelando il suo fantastico culo – una visione che gli fece pulsare il cazzo con rinnovato vigore. Estasiato, si fermò ad accarezzarglielo, a baciarglielo, i denti che lasciavano piccoli segni sulla carne morbida. Con le mani le allargò le chiappe, lasciando che la sua lingua si insinuasse a cercare quel buchino stretto e invitante. Lo leccò con dedizione, bagnandolo, riempiendolo di saliva, mentre la mano scivolava tra le sue cosce ad accarezzare, stuzzicare, torturare il clitoride ancora sensibile.
Allontanò un poco il viso per ammirare lo spettacolo delle sue dita che scivolavano dentro la sua fica. L’oscenità di quella visione, i suoni bagnati dei suoi movimenti, il modo in cui lei si spingeva contro la sua mano – tutto contribuiva a farlo impazzire di desiderio. Sentiva il respiro di Roberta farsi di nuovo affannoso, pesante. Lasciò che il dito scivolasse dalla sua figa all’ano. Spingendo piano, lo sentì schiudersi, accogliere il dito, pulsare di eccitazione.
In quel momento, il suo stesso cazzo era così duro da far male. Sfilò il dito e si posizionò dietro di lei. Roberta allargò le gambe, spingendo il sedere verso di lui – un invito che non poteva ignorare.
Puntò il glande contro il suo ani e, nonostante il desiderio fosse quello di spingersi dentro con tutte le forze, si impose un ultimo momento di controllo. La penetrò lentamente, sentendola trattenere il respiro per un istante prima di spingersi indietro contro di lui, accogliendolo tutto dentro fino alla radice. Restò immobile dentro di lei per qualche secondo, poi lo sfilò fuori con altrettanta lentezza. Il gemito di protesta di Roberta si trasformò in uno di piacere quando la riempì di nuovo, questa volta con più vigore. Ma ancora una volta Dago si ritrasse. Il gioco la stava frustrando ed eccitando allo stesso tempo.
Quando sentì di nuovo il glande premere per farsi strada, le mani di lui le afferrarono i fianchi con una presa che avrebbe lasciato lividi. Questa volta la penetrazione fu quasi brutale – le spinse dentro il cazzo tutto in un colpo solo. Il grido di Roberta fu un misto perfetto di dolore e piacere.
Dago le diede il tempo di adattarsi, poi iniziò a scoparla con un ritmo che cresceva inesorabilmente. Erano entrambi vicini al limite. Lei si spingeva contro di lui come se volesse essere spaccata in due, chiedendo sempre di più. Lui si aggrappò alle sue tette e lasciò che il “selvaggio” che aveva dentro prendesse il controllo, spingendo con tutte le forze, lasciandola senza fiato ad ogni colpo.
“Voglio sentirti venire ancora,” le grugnì senza smettere di muoversi dentro il suo culo.
“Sto per venire… sto per venire…”
Un formicolio familiare pervase il corpo di Dago, quasi un capogiro. Raccolse le ultime forze, spingendo ancora più forte, e solo quando la sentì iniziare a tremare si lasciò travolgere dal proprio orgasmo, schizzandole dentro tutto il suo caldo piacere.
L’orgasmo fu così violento e travolgente che, visto il poco spazio a disposizione, si ritrovarono seduti sulla tazza del cesso. Passarono lunghissimi minuti a baciarsi e accarezzarsi, cercando di riprendere il controllo delle menti e dei corpi. Quando finalmente si guardarono, scoppiarono a ridere – una risata complice, intima, che sapeva di promesse future.
“E adesso che diciamo agli altri? Sicuramente avranno notato la nostra assenza.”
“Non gli diciamo nulla, al massimo diciamo che avevamo voglia di parlare un po’ da soli.”
Fu difficile rivestirsi resistendo alla tentazione di ricominciare a giocare l’uno con il corpo dell’altro. Ogni bottone che si chiudeva era una piccola tortura, ogni lembo di pelle che scompariva sotto i vestiti un piccolo rimpianto.
Rientrarono nel locale e subito si accorsero che qualcuno era già andato via. Tra questi anche Massimo.
“Che stronzo, e adesso come torno a casa?” Il commento adirato di Roberta conteneva una nota di divertimento, come se già sapesse che la serata era tutt’altro che finita.
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