Corrispondenze Carnali - Capitolo 2 – Confini Dissolti

  • Scritto da DagoHeron il 28/04/2025 - 14:47
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“Non ho qui la macchina, ma posso farti una proposta.” Dago guardò Roberta con intensità. “Possiamo chiedere un passaggio, andare a casa mia, prendiamo la mia macchina e ti accompagno a casa.”

Roberta accettò e non fu nemmeno difficile farsi accompagnare a casa da Paolo, anche se continuava a lanciare strane occhiate a Dago. Li lasciò sotto casa e scappò veloce, quasi non volesse disturbare.

Salirono a casa per prendere le chiavi della macchina, una cosa veloce. Lasciandola in salotto le disse: “Faccio in un attimo, vado a prendere le chiavi in camera e torno. Se vuoi qualcosa da bere lo trovi là,” e scomparve dopo averle indicato il mobile bar. La timidezza che lo caratterizzava, lo faceva agire spesso da coglione, ma Roberta non era tipo da scoraggiarsi facilmente.

Quando Dago rientrò in sala rimase piacevolmente sorpreso dallo spettacolo che lo aspettava. Roberta era completamente nuda sul divano, una mano reggeva un bicchiere di whisky e l’altra accarezzava giocava con il proprio corpo, movimenti lenti che tracciavano linee di desiderio sulla pelle ambrata.

“Ti ho versato qualcosa da bere,” gli disse indicando il tavolino sul quale c’era un altro bicchiere di whisky e il secchiello del ghiaccio.

Il cuore gli martellava in gola mentre non riusciva a staccare gli occhi da quello spettacolo, ipnotizzato dalle dita che percorrevano con precisione calcolata la geografia della sua intimità. Restò in piedi, impacciato, il corpo tradiva da un’eccitazione che non poteva nascondere. Bevve un abbondante sorso di quel liquido ambrato che, arrivato nello stomaco esplose irradiandolo di una nuova energia.

“Siediti vicino a me.” La voce suadente di Roberta lo guidava come in stato di trance. Si muoveva come un sonnambulo, il corpo separato dalla mente, guidato solo dal richiamo primitivo di quel desiderio. Appena si fu seduto, Roberta gli si mise sopra a cavalcioni, iniziando a baciarlo e spogliarlo completamente.

Il whisky e l’eccitazione avevano ulteriormente sbloccato Dago, che ora era molto più partecipe nello scambio di effusioni. Un’elettricità gli scorreva sotto la pelle, sciogliendo le riserve, incendiando ogni terminazione nervosa.

“Chiudi gli occhi.” Il suo sussurro di Roberta non ammetteva repliche e incuriosiva Dago.

Dago obbedì, abbandonandosi a quella privazione volontaria della vista che acuiva ogni altro senso. Ascoltando solo con la pelle, sentiva le mani e la bocca di Roberta muoversi lungo il suo corpo come correnti d’acqua calda, imprevedibili ma inevitabili. Esplorava il suo corpo con la precisione di chi cerca un tesoro nascosto, ogni tocco una rivelazione, ogni bacio una piccola morte.

Fu repentinamente riportato alla realtà dal gelo del cubetto di ghiaccio sulla sua pelle, e subito dopo il calore della sua lingua a scaldarlo. Quella danza di contrasti – freddo glaciale e calore umido – creava cortocircuiti nei suoi nervi, mandando segnali confusi al cervello che traduceva tutto in puro piacere. Una piacevole tortura che gli fece aprire gli occhi, tradendo il comando ricevuto.

“Ti avevo detto di tenere chiusi gli occhi.” La voce di Roberta si era indurita, un rimprovero che conteneva la promessa di una punizione. Allungò una mano recuperando la sua sciarpa di seta e lo bendò con la precisione di chi ha pratica in questi giochi di potere.

Poi ricominciò il suo giochino, partendo dai capezzoli, scivolando sul petto, poi giù sulla pancia. Il respiro di Dago era corto e affannoso, non tanto per il cubetto di ghiaccio, ma per l’anticipazione che lo teneva sospeso in un nuovo spazio di piacere.

La mano fredda avvolse il suo cazzo. In quell’improvviso contatto, Dago sperimentò la peculiare sensazione di essere contemporaneamente presente e distante dal proprio corpo. Sentì che lo massaggiava, sentì il suo alito caldo sul glande, la bocca che lo avvolgeva, succhiava. Si inarcò di piacere, mentre lei succhiava con tutte le sue forze, quasi facendogli male, trasformando il piacere in qualcosa che sfiorava il dolore senza mai attraversare completamente quel confine.

Con dispiacere sentì la bocca di lei abbandonarlo, ma non ebbe nemmeno il tempo di lamentarsi perché il contatto del suo cazzo con il cubetto di ghiaccio fu talmente scioccante che gli tolse il fiato. Il freddo del ghiaccio gli attraversò l’asta come una scarica elettrica, un dolore freddo che quasi lo fece urlare. Dago tentò di sottrarsi a quella tortura ma lei lo aveva abilmente bloccato.

Roberta continuò ad alternare il cubetto di ghiaccio e la sua bocca, tortura e piacere in una danza di contrasti. Il freddo che paralizzava, il calore che rianimava. Continuò fino a sciogliere completamente il ghiaccio, mentre Dago sentiva il suo fallo raggiungere un’erezione mai sperimentata prima. Il gioco del caldo e del freddo aveva attivato una vascolarizzazione che aveva attirato più sangue del solito a riempire la sua carne. Lo sentiva pulsare sotto la pelle tesa, cappella gonfia d’eccitazione, vene sporgenti in rilievo, pronte ad aumentare la stimolazione della sua figa.

Lei lo fece sdraiare sul tappeto, mettendosi sopra di lui iniziando a strofinare la sua figa contro la sua asta, premendosi con decisione, bagnandolo. Poi iniziò a scivolare sul suo corpo, una risalita metodica, lasciando una scia di umori dove passava.

Si mosse fino a che Dago sentì le sue ginocchia ai lati della testa e il pungente odore del suo sesso invadergli le narici. L’aroma era intenso, primordiale, un richiamo che parlava alla parte più antica del suo cervello.

“Leccamela.” Ordinò con voce resa roca dall’eccitazione.

Afferrandola per le chiappe la tirò a sé iniziando a leccarla. Quel gesto racchiudeva tutta la fame repressa, ora liberata in un banchetto di sensi. La lingua esplorava i contorni umidi, penetrava nelle pieghe, lappava gli umori con avidità. Roberta lo aiutava allargandosi le labbra, esponendosi completamente.

Mentre la leccava, le spinse con decisione un dito nel culo, iniziando a muoverlo, spingendolo dentro tutto. Il corpo di Roberta sussultò, trafitta da quell’intrusione inaspettata che trasformava il dolore in un’onda calda di piacere. Per tutta risposta, si prese i seni tra le mani strizzandoli, strizzandosi i capezzoli con forza, mentre cavalcava la bocca e il dito di Dago.

Bendato, isolato visivamente dal mondo, i sensi di Dago erano concentrati su due cose: la figa morbida, bagnata, calda contro la sua lingua e il suo cazzo eretto, pulsante. Era in uno stato di trance in cui esistevano solo la carne ed il desiderio.

Fu piacevolmente sorpreso quando lei gli tolse la benda. Lo spettacolo della sua figa così da vicino lo distrasse dalle reali intenzioni di Roberta. Quando si accorse che lei gli aveva legato i polsi alla gamba del divano era troppo tardi.

“Che intenzioni hai?” le chiese, la voce oscillante tra divertimento e impazienza.

“Tutte quelle che mi passano per la testa. Voglio usare il tuo corpo per prendermi tutto il piacere che posso!”

Il suo corpo era particolarmente attraente, uno spettacolo da guardare, ma i suoi occhi, fiammeggianti di piacere, erano ipnotizzanti. Contenevano un universo di possibilità proibite, promesse di piaceri sconosciuti. Dago si sentiva risucchiato in quel vortice ambrato, perdendo ogni ancora con la ragione.

Lentamente lei scivolò lungo il suo corpo, si puntò sui piedi sollevandosi sopra il suo uccello. Dago riusciva solo a pensare a quanto avrebbe voluto impugnarlo e puntarlo verso la sua figa. La sua immobilità forzata aggiungeva un elemento di tortura all’eccitazione, creando una tensione quasi insopportabile.

Lei invece lasciò scivolare le mani sul proprio corpo, un viaggio di autoesplorazione che lui poteva solo guardare, testimone impotente di un piacere che avrebbe voluto dare lui stesso. Le palme percorrevano i seni, la pancia, soffermandosi sulla sua figa perfettamente rasata. Le dita si insinuavano tra le labbra gonfie con la familiarità di chi conosce ogni angolo della propria geografia intima.

“Guardala, guarda quanto desidera il tuo cazzo.” La sua voce era un sussurro roco, una confessione oscena che amplificava la tensione. Gocce di umori colavano direttamente sul suo membro, battesimo di desiderio che faceva pulsare ogni vena sotto la pelle tesa.

La mano impregnata di umori impugnò finalmente il cazzo, accarezzandolo, stringendolo quanto bastava per valutarne la consistenza, la durezza, per studiarne le reazioni come uno strumento che si impara a suonare. La pelle tesa allo spasimo; la cappella livida e bollente, gonfia di sangue, sensibile al punto che ogni tocco era quasi doloroso.

Lo puntò verso l’alto e iniziò a calarsi lentamente, inghiottendolo lentemente millimetro dopo millimetro. L’attesa dilatava il tempo, trasformando quei secondi in un’eternità di sospensione. Roberta non aveva fretta, voleva gustarsi ogni centimetro di quel fallo di pietra, per sempre impressa nella memoria.

Su e giù lentamente, anche lei ipnotizzata dalla visione dei loro sessi che si univano, il cazzo di Dago più lucido, bagnato ogni volta che usciva. I suoi occhi non abbandonavano quel punto di congiunzione, quel luogo sacro dove i loro corpi perdevano i confini. Il ritmo che piano piano aumentava, come una sinfonia che cresce verso il suo crescendo, e lei che si lasciava cadere sopra sempre più forte, lasciandosi guidare dal desiderio di sentirsi riempire sempre di più da quel cazzo che sembrava più grosso ogni volta.

Dago dal canto suo cercava di partecipare spingendo sotto di lei, riuscendo parzialmente a sfuggire al completo controllo di Roberta, riuscendo quasi a dettare il ritmo. I suoi fianchi si sollevavano dal divano con la forza della disperazione, nel tentativo di riprendere almeno in parte il controllo, di non essere solo un oggetto ma un partecipante attivo in quella danza primordiale.

Ma lei se ne accorse. Nei suoi occhi passò un lampo che era insieme rimprovero e sfida. Lottando con tutte le forze contro il proprio istinto e il proprio piacere, rallentò. Si fermò, gustandosi quel pezzo di carne che la riempiva perfettamente, assaporando il potere che le dava la sua immobilità. Nel silenzio che seguì, solo i respiri e il battito frenetico dei cuori riempivano la stanza.

Ma non aveva ancora esaurito le sue fantasie. In fin dei conti se trovi il giusto partner sono inesauribili. Lentamente e con un po’ di dispiacere si sfilò dal membro, sentendo il vuoto dentro di lei, una sensazione di perdita che però conteneva la promessa di nuovi piaceri.

Muovendosi come un felino si rannicchiò tra le gambe di Dago, iniziando a strofinare il viso sul cazzo come una gatta che fa le fusa. Il suo cazzo era impregnato del suo stesso odore, dei suoi umori, e questo mescolamento di essenze la eccitava oltre ogni dire. Iniziò a leccarlo dalle palle fino alla cappella, succhiandolo, gustandolo, assaporando quella parte di sé che era rimasta su di lui.

Dago era nuovamente in suo potere, ammaliato dall’arte pompinara di Roberta. Lei ne approfittò per allargargli ancora di più le gambe e far scivolare la sua lingua tra le chiappe.

Un brivido di terrore percorse il corpo di Dago, mentre il suo cervello mandava impulsi di panico. Una linea invisibile stava per essere attraversata, un territorio inesplorato che aveva sempre evitato. Istintivamente tentò di chiudere le gambe, ma il corpo di lei glielo impediva, piccolo e forte come una morsa implacabile.

Un sorriso malizioso comparve sul viso di Roberta, mentre le dita accarezzavano il suo ano bagnato di saliva. La paura negli occhi di lui era un afrodisiaco potente, quella vulnerabilità maschile solitamente nascosta dietro armature di sicurezza. Prese in bocca il cazzo tenendo i propri occhi fissi in quelli di lui, muovendosi con un ritmo dolce, incantatore. Quando ritenne che fosse il momento giusto, iniziò a spingere piano dentro il dito.

Lo sentì agitarsi, stringere lo sfintere in un tentativo istintivo di resistenza, ma era lei la padrona del gioco. Accelerò i movimenti della bocca, le attenzioni della lingua sul cazzo, mentre il dito continuava a insinuarsi sempre più in profondità, finché non trovò quel punto preciso, quella ghiandola nascosta che trasformava l’invasione in piacere.

Dago non capiva più cosa stesse provando. Quel dito nel culo stimolava prima di tutto le sue paure ancestrali, i tabù radicati nella sua coscienza. Ma il piacere… il piacere arrivava in ondate che gli toglievano il fiato. Ogni volta che quel dito premeva contro la sua prostata, una scarica elettrica gli percorreva la colonna vertebrale, mandando impulsi di puro piacere fino alla punta del cazzo.

Era una donna che stava approfittando del suo culo, una donna sensuale, eccitante, che aveva demolito le sue difese una ad una. La sua bocca stava regalandogli uno dei maggiori piaceri della sua vita, e quel dito sembrava contribuire al tutto, creando un circuito chiuso di sensazioni che amplificavano ogni impulso nervoso, ogni battito del suo cuore.

La stimolazione del suo cazzo e del suo ano si fondevano in una sensazione unica, un cortocircuito elettrico che annullava ogni altra percezione. Era come se due universi separati di piacere si fossero improvvisamente sovrapposti, creando un’esperienza che trascendeva la semplice somma delle parti. Il dito dentro di lui premeva ritmicamente contro quella zona sconosciuta, quel bottone nascosto che nessuno aveva mai toccato prima, inviando impulsi di piacere che non sapeva nemmeno di poter provare.

Roberta accelerò i movimenti della bocca e del dito, e ormai anche lui la assecondava, gemendo e contorcendosi dal piacere. Ogni resistenza era crollata, ogni tabù dissolto nel calore bruciante di quel doppio assalto ai suoi sensi. La vergogna si era trasformata in abbandono, la paura in apertura totale. Si sentiva esposto, vulnerabile, ma paradossalmente più libero che mai.

Continuava ad accelerare sentendolo vicino all’orgasmo. Voleva la sua sborra. La voleva tutta, in bocca, in gola, voleva sentire quel liquido caldo esploderle contro il palato, scivolarle lungo la lingua. Lo desiderava on un’intensità che la divorava, incontrollabile, come se in quel liquido fosse contenuta l’essenza stessa della sua virilità.

Dago raggiunse l’orgasmo con un urlo al limite del disumano. Il suo corpo si inarcò, teso come un arco, mentre la sua sborra uscì con uno schizzo violento riempiendo la bocca di Roberta di liquido caldo. Ma lei non ebbe un istante di esitazione, continuando a succhiare ininterrottamente, accogliendo ogni goccia, ogni spasmo, ogni contrazione del suo corpo. Le sue guance si svuotavano e si riempivano, mentre anche lei, in preda al piacere per empatia, colava miele caldo tra le cosce.

Solo quando fu certa che lui non ne aveva più in corpo scivolò su di lui fino a trovarsi occhi negli occhi. Le labbra lucide, gli occhi languidi, soddisfatti. “Sono stata brava?” gli chiese con un tono da presa in giro, la voce ancora arrochita dall’intensità di ciò che aveva appena fatto.

Dago sentiva di avere una faccia particolarmente strana, la faccia di quello che non ha ancora capito cosa sia successo, e quanto gli fosse piaciuto quello che era successo. La faccia di quelli che scoprono di essere stati coinvolti in una Candid Camera. Ma di una cosa era certa e gliela disse.

“Direi… sconvolgente!”

Roberta rise, e poi continuando con quel suo modo da gattona gli disse: “Adesso però tocca a te farmi godere.” E si rimise cavalcioni sul suo viso, non una richiesta ma un’imposizione mascherata da invito.

Il profumo di lei era più intenso ora, muschiato e selvatico, un odore che parlava direttamente alla parte primitiva del cervello, bypassando ogni processo razionale. Dago, ancora con i polsi legati, iniziò subito a leccarla, stimolato dal miele che continuava a colarle ininterrottamente. Era un nettare, più denso, carico dell’eccitazione che aveva accumulato mentre lo dominava.

Lei si allargò le labbra per facilitargli il lavoro e iniziò a cavalcare il suo viso, strofinandosi avanti e indietro sulla lingua. Era in preda al crescente furore dell’eccitazione che precede l’orgasmo, quel punto cieco dove la mente si offusca e il corpo prende il sopravvento, guidato solo dal bisogno di completamento.

Il clitoride vibrava sotto le sue attenzioni, mentre le labbra interne si aprivano come un fiore carnoso. Dago leccava, succhiava, mordeva leggermente, alternando pressioni diverse, attento a ogni risposta del corpo di lei.

Roberta godette senza ritegno, urlando il suo piacere con voce animalesca. Il suo corpo si contrasse in spasmi violenti, ondate di piacere che partivano dal centro e si irradiavano fino alle estremità. Inondò il viso di Dago che non smetteva di leccarla, con la testa che le girava e le orecchie che ronzavano.

Si accorse troppo tardi di quello che stava succedendo. Dago era riuscito a liberarsi le mani e l’aveva ribaltata sul divano. Quando riuscì a capire dove era e cosa stava accadendo, lui era sopra di lei, le sue mani le tenevano le gambe larghe, spinte verso il suo petto, e sentiva il glande puntato decisamente nel suo culo.

Con un filo di voce stava per chiedere “Come hai fatto…” ma lui le spinse brutalmente dentro tutto il cazzo, togliendole il fiato, mentre nel suo cervello una nuova forma di piacere esplodeva.

Dago continuò a spingere ripetutamente, cercando di aumentare la forza ad ogni colpo. Ogni spinta era più profonda, più violenta della precedente, un atto di conquista e riappropriazione. Era come se volesse marchiare il territorio, reclamare il suo ruolo.

Guidato dalla furia dell’eccitazione, alterandosi tra la sua figa e il suo culo, la lasciava senza fiato, strappandole gemiti quasi di dolore, lacrime di piacere, mentre il suo viso era stravolto contratto dal piacere, in espressioni che trascendevano le parole. I suoi lineamenti, prima delicati, erano ora contratti in una maschera di estasi e sofferenza indistinguibili l’una dall’altra. Le pupille dilatate fino a inghiottire l’iride, la mascella rilassata in un urlo silenzioso, la fronte imperlata di sudore.

Accorgendosi che stava oltrepassando la soglia tra piacere e dolore, quasi avesse placato la sua ira, consumato la sua vendetta, Dago rallentò. Quel rallentamento non era gentilezza, ma un’altra forma di controllo – dimostrare che poteva fermarsi, che poteva decidere il ritmo e l’intensità di quel piacere condiviso.

Scivolò ancora una volta tutto dentro il suo culo, fermandosi, osservando il risultato della sua azione come un artista che contempla la propria opera. Roberta faticava a respirare, il petto si alzava freneticamente, gli occhi ridotti a due fessure che lasciavano filtrare uno sguardo perso nel vuoto, in qualche dimensione alternativa dove esisteva solo la sensazione.

Lentamente si sfilò, guardando affascinato quel buco che cercava di richiudersi, un fiore carnoso che si contraeva nel tentativo di tornare alla sua forma originale. Poi delicatamente si rispinse dentro, in un contrasto stridente con la brutalità precedente. Il suo cazzo trovava la strada da solo, memoria muscolare che ricordava il percorso verso il piacere.

Il culo di Roberta era oramai come burro morbido, si apriva, accoglieva, abbracciava appassionatamente la sua asta, risucchiandola dentro le sue viscere con avidità. Le resistenze erano cadute, sia fisiche che psicologiche, lasciando posto a un abbandono totale. Roberta si afferrò le chiappe, allargandole, allargandosi l’ano per facilitare il compito a Dago, in una resa volontaria che era anche una forma di controllo.

Quel cazzo che entrava e usciva, il ritmo che lui teneva, stimolò rapidamente le fantasie più oscure di entrambi. Era come se ogni spinta scavasse più a fondo non solo nel corpo ma nella psiche, risvegliando pulsioni sepolte, desideri innominabili. Gli occhi di entrambi erano puntati sull’ano, oramai palpitante, continuamente deflorato, violentato, penetrato, allargato da quel cazzo. Osservavano quasi fossero spettatori esterni, come se quei corpi fossero entità separate dalle loro coscienze.

“Voglio che ti sgrilletti!!” La voce roca di Dago non ammetteva repliche, un comando secco che rimbombò nella stanza come un tuono.

Mentre il cazzo continuava ininterrottamente il suo dentro-fuori, Roberta portò le mani alla sua figa,  iniziando ad accarezzarsi la clitoride. I suoi movimenti erano delicati, quasi esitanti, un contrappunto alla brutalità con cui lui la possedeva. La dicotomia tra la violenza che riceveva e la dolcezza che si concedeva creava una tensione elettrica tra i loro corpi.

“Più veloce.” Le disse, voce che oscillava tra comando e preghiera. Lei accelerò un poco i movimenti, ma con una resistenza sottile, quasi impercettibile. Non voleva venire subito, desiderava prolungare quell’estasi dolorosa, quella sospensione tra cielo e terra. Voleva abitare quel limbo il più a lungo possibile.

“Ho detto più veloce!!” ripeté rafforzando l’ordine spingendo con forza bruta dentro il cazzo. Non era più una richiesta ma un ultimatum, un decreto che non ammetteva disobbedienza. Le sue parole erano pugni nell’aria, ogni sillaba carica di dominazione.

Roberta ubbidì, iniziando a massaggiarsi la clitoride velocemente e con forza, abbandonando ogni pretesa di controllo. Le sue dita presero a muoversi con violenza, quasi volesse punirsi, violentarsi a sua volta. Mentre lui accelerava progressivamente le spinte, seguendo l’onda del suo piacere, continuando a pompare nel suo culo. I suoi movimenti erano precisi e implacabili, come se il suo corpo fosse stato programmato per una sola funzione: possederla fino all’annientamento.

“Vengo… vengo… vengo…” La voce di Roberta era un mantra spezzato, una litania sacra che annunciava l’imminente dissoluzione del sé. Le parole si frammentavano tra i gemiti, sillabe disperse nell’aria calda e densa della stanza.

Lui le intimò di non fermarsi mentre iniziava a stantufarla velocemente nel culo. Il divieto era un ulteriore strumento di controllo, un guinzaglio invisibile che la teneva al limite del precipizio senza permetterle di cadere.

Il suo orgasmo fu come una violenta esplosione nel suo corpo, un Big Bang che creava un universo di sensazioni. Sentiva uscire fiotti abbondanti dalla figa che sembravano non voler smettere mai, un’emorragia di piacere che la svuotava di ogni cosa eccetto la sensazione pura. Era ridotta a puro nervo scoperto, a pura percezione senza filtri. Il corpo che si contraeva in spasmi violenti, involontari, mentre lui continuava a spingere dentro di lei, implacabile, prolungando il suo piacere oltre i limiti della sopportazione.

Con gli occhi chiusi si perdeva per mondi sconosciuti, universi paralleli dove esisteva solo la sensazione. Era come essere simultaneamente ovunque e da nessuna parte, un paradosso carnale che trascendeva la fisica ordinaria.

Poi, mentre il massimo piacere scemava, lo sentì rallentare e sfilarsi. La sensazione di vuoto dopo essere stata così completamente riempita era quasi dolorosa, una perdita che il corpo piangeva.

Quando riuscì ad aprire gli occhi, il mondo tornò lentamente a fuoco. Lui era in piedi sul divano, il cazzo davanti al suo viso, ancora duro, pulsante di una vitalità che sembrava inesauribile. I ruoli si erano nuovamente invertiti: ora era lei la supplice, lui il dio che dispensava grazie.

Lei aprì la bocca avvicinandosi, sapendo istintivamente cosa dovesse fare, un atto di devozione che completava il cerchio rituale. Ma lui la prese per i capelli trattenendola, le dita che si avvinghiavano alle radici con forza controllata. Un’ulteriore dimostrazione di potere, l’ennesima prova che lui controllava il ritmo, la progressione, persino l’aria che lei respirava. La schiaffeggiò con la sua minchia e poi gliela spinse in bocca iniziando a scoparla freneticamente. Non c’era più delicatezza ora, solo la necessità di godere!

Roberta non poteva fare altro che subire, ormai senza forze, ridotta a puro ricettacolo di piacere. Eppure, mentre lui le invadeva la bocca, la sua mano scivolò quasi involontariamente tra le cosce. Le dita trovarono la clitoride ancora gonfia, ipersensibile, e iniziarono a sfregarlo con frenesia disperata. Era come se quel cazzo che le violava la bocca avesse un collegamento diretto con il suo sesso, ogni spinta un comando al proprio piacere.

La velocità e l’intensità con cui si masturbava crescevano in parallelo con i movimenti di lui nella sua bocca. Si toccava furiosamente, con un’urgenza che rasentava la violenza su sé stessa. Le sue dita erano una macchina impazzita, frenetiche, incontrollabili, guidate da un istinto più forte della ragione.

Il nuovo orgasmo la colse come un’onda anomala, inaspettato nella sua intensità. Il suo corpo si inarcò, tremando violentemente mentre un getto caldo schizzava dalle sue profondità, bagnando il divano, le gambe, il pavimento. Uno squirt potente che sembrava non voler finire mai, l’ultimo tributo del suo corpo a quella notte di eccessi.

Dago era ormai al limite, il piacere che cresceva inarrestabile alla base della sua spina dorsale. Le ultime spinte furono velocissime, frenetiche, quasi disperate. Perse quasi il controllo dell’orgasmo, quel fragile equilibrio tra abbandono e dominio, sfilandosi solo all’ultimo istante urlandole di aprire la bocca. Un comando gutturale che proveniva da un luogo più antico delle parole.

Il suo cazzo schizzò ovunque, come un pennello impazzito che dipingeva la sua tela vivente. La marcava, la possedeva in un modo più primitivo e definitivo di qualsiasi penetrazione. La sborra le colpì il viso, entrò nella bocca spalancata, colò sulle tette, si sparse su tutto il corpo. Era un sacramento pagano, un battesimo carnale che sigillava quanto avevano condiviso. Continuava a massaggiarsi l’asta per spremere fuori fino all’ultima goccia, prolungando quel momento di piacere assoluto fino al limite del sopportabile.

Roberta, in un ultimo sussulto di energia, riuscì a catapultarsi con la bocca su quel cazzo ancora pulsante, andando a succhiare gli ultimi rimasugli. Lo pulì con la lingua come un felino, nessuna goccia sprecata, mentre con le mani si spalmava la sborra sul corpo. Era un gesto rituale, antico, l’unzione con l’essenza dell’altro, un modo per prolungare la fusione dei corpi oltre il momento dell’accoppiamento.

Si ritrovarono abbandonati sul divano, avvinghiati, ansimanti. I corpi sfiniti, coperti di sudore e fluidi, testimoni dell’intensità di quanto avevano condiviso. Nessuno parlava – non c’era bisogno di parole in quel momento. Il silenzio era perfetto, interrotto solo dal graduale rallentare dei respiri che tornavano a ritmi normali.

Le menti fibrillavano ancora di fantasie, immagini che si formavano e dissolvevano come nuvole estive. In quegli attimi di quiete post-orgasmica, le identità tornano lentamente a ricomporsi, i confini tra i corpi a ristabilirsi. Eppure qualcosa era cambiato, un ponte invisibile era stato costruito tra loro, un passaggio segreto che avrebbero potuto attraversare nuovamente.

In fin dei conti non c’era nessuna fretta di accompagnarla a casa. Il mondo fuori poteva attendere ancora un po’. Quella bolla di intimità che avevano creato era troppo preziosa per essere infranta, almeno per ora. Dago le accarezzò i capelli con una tenerezza che contrastava con la brutalità di pochi istanti prima, mentre il sonno iniziava a reclamarli, promettendo sogni pervasi dagli echi di quanto avevano appena vissuto.

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