Il caffè nella moka gorgogliò, riempiendo la cucina del suo aroma intenso. Dago versò il liquido scuro nella tazza, osservando le volute di vapore che salivano verso il soffitto, disegnando arabeschi astratti, mentre la mente vagava ancora tra le immagini della notte appena trascorsa.
Il caffè gli scivolò in gola, amaro e forte, riportandolo definitivamente alla realtà. Una sensazione urgente alla vescica gli ricordò che c’erano necessità fisiologiche che nemmeno le più intense esperienze erotiche potevano rimandare all’infinito. Con un sospiro, abbandonò la tazza sul piano della cucina e si diresse verso il bagno.
Mentre sentiva sul suo membro ancora forte l’odore degli umori di Roberta, cominciò a pisciare con l’abbandono di chi finalmente libera una tensione corporea troppo a lungo trattenuta. Un piacere basilare, quasi imbarazzante nella sua semplicità rispetto alle complessità dei piaceri della notte. L’odore di lei, quella firma olfattiva inequivocabile, permaneva sulla sua pelle come una traccia di possesso, un marchio invisibile che aveva penetrato non solo l’epidermide ma qualcosa di più profondo.
Già che era in bagno, per cercare di dare nuovi impulsi al suo cervello e al suo fisico si concesse una doccia. Lasciò che l’acqua scivolasse sul corpo come un amante liquido, lavando via il sudore e la stanchezza, ma non i ricordi, non le sensazioni. Curiosamente, ogni goccia che gli percorreva la pelle sembrava riattivare punti di memoria tattile, qui le unghie di lei gli avevano graffiato la schiena, lì le sue labbra si erano posate con ferocia inaspettata. Anche sotto il getto purificatore, il fantasma del suo corpo continuava a toccarlo.
Si arrotolò alla vita un asciugamano come sua abitudine. Si guardò allo specchio appannato, scorgendo nell’immagine sfocata un uomo che assomigliava a sé stesso ma che portava su di se i segni di una nottata intensa. Sorrise a se stesso lacciando che i ricordi girassero per la sua mente
Tornò in camera, dove Roberta dormiva ancora—un’isola di carne calda nel mare bianco delle lenzuola. La osservò respirare, il petto che si alzava e abbassava in un ritmo lento. Era distesa su un fianco, il corpo disegnato dalla luce del mattino che filtrava dalle persiane. Le sue curve, la pelle ambrata, i capelli sparpagliati sul cuscino in un disordine che sembrava studiato. Dago adorava in particolare la curva delle sue natiche, quell’arco perfetto di carne che prometteva paradisi segreti.
Il suo stomaco emise un brontolio che suonava come un richiamo primordiale. Pensò a Roberta, immaginando la sua fame al risveglio, e decise che una colazione decente era l’unico tributo adeguato alla notte che avevano condiviso.
“Fanculo la stanchezza,” mormorò a sé stesso, infilandosi i jeans con movimenti rapidi. Niente boxer, una piccola ribellione mattutina, e poi sentiva ancora il corpo di lei impresso sulla pelle, non voleva frapporre barriere. Si infilò una camicia fresca di tintoria e pese le chiavi, il portafoglio, si passò una mano tra i capelli ancora umidi, ed uscì di casa.
Conosceva una pasticceria non troppo distante che sicuramente aveva già sfornato una varietà infinita di brioches. Mentre faceva una passeggiata rigenerante immaginava il profumo di burro, vaniglia e caffè tipico di quel locale.
Roberta si svegliò con la bocca secca e un formicolare tra le cosce che persisteva come un’eco. Allungò la mano nel letto ancora tiepido ma già vuoto, e la vescica richiamò la sua attenzione con un’urgenza non negoziabile. Sbuffando, completamente impastata dal sonno si alzò a fatica dal letto. Istintivamente raccolse una camicia di Dago infilandosela e abbottonandola sommariamente. Si sedette sulla tazza praticamente ancora addormentata, il gomito appoggiato su una coscia per permettere al braccio di reggere la testa. Mentre tornava dal bagno, il campanello squillò con insistenza.
Senza pensare, aprì la porta. Solo quando si trovò faccia a faccia con la visitatrice, realizzò la sua situazione: una camicia di Dago come unico indumento, i capelli un caos suggestivo, il viso che recava ancora i segni della notte.
Alla porta c’era una donna, di spalle. I lunghi capelli biondi scendevano sulle spalle come una cascata d’oro battuto, catturando la luce del mattino e trasformandola in un’aureola. Indossava un vestito leggero, gonna e camicetta, che lasciava intravedere un corpo formoso e sensuale – una silhouette da pin-up classica, curve precise dove dovevano essere, una pienezza che suggeriva abbondanza senza eccesso. Quando sentì la porta aprirsi si girò.
“Sei pronto?” Le parole le morirono in gola, sostituite da un sorriso che conteneva ugual misura di curiosità e apprezzamento. La donna bionda sulla soglia scrutò Roberta dalla testa ai piedi, fermandosi deliberatamente sulle gambe nude e sulla camicia maschile male abbottonata che copriva a malapena il suo corpo nudo.
“Scusa,” riprese con voce morbida che non tradiva alcun reale dispiacere. “Cercavo Dago, ma vedo che ha trovato compagnia più… interessante.” Gli occhi azzurri scivolarono ancora sul corpo di Roberta, una lettura lenta che sembrava voler memorizzare ogni dettaglio.
“Sono Rebecca,” aggiunse, tendendo una mano con unghie perfettamente smaltate.
Roberta sentì un calore imprevisto salirle alle guance. L’imbarazzo di essere stata sorpresa si mescolava a una strana sensazione di essere ammirata che non riusciva a decifrare completamente.
“Roberta,” rispose, stringendo quella mano con più fermezza di quanto intendesse. “Dago è uscito… credo sia andato a prendere la colazione.”
Si spostò istintivamente, permettendo a Rebecca di entrare. “Avevi un appuntamento con Dago?” chiese, cercando di riprendere controllo della situazione. Solo in quel momento realizzò quanto gli occhi di Rebecca stavano esplorando insistentemente il suo corpo.
“Niente che non possa aspettare,” sorrise Rebecca, entrando e lasciandosi cadere sul divano con naturale eleganza. “È molto più interessante quello che trovo qui.” Roberta la seguì quasi come un automa, sedendosi, compostamente, non lontano da lei.
Roberta si rese conto di quanto fosse vulnerabile, esposta nella sua nudità mentre Rebecca restava vestita, un’asimmetria di potere che la eccitava quanto la imbarazzava. Lo sguardo di Rebecca sembrava volerle incenerire la camicia, mappando ciò che c’era sotto con una precisione quasi tattile.
Studiandola a sua volta, Roberta notò come fisicamente fossero quasi complementari. Una mora dalla carnagione ambrata, capelli mossi, occhi scuri; l’altra bionda, pelle diafana, occhi azzurri come un cielo impossibile. Eppure le loro forme parlavano lo stesso linguaggio — curve generose, seni pieni, fianchi pronunciati — un’armonia di contrasti.
Il cappotto e la borsa di Rebecca finirono sul divano con noncuranza studiata. Nel movimento per spostarsi, si ritrovò improvvisamente a un respiro di distanza da Roberta. Una prossimità che sembrava casuale ma non lo era affatto.
Rebecca non esitò. Le sue mani salirono a incorniciare il viso di Roberta, fermandosi un istante prima del contatto, come a concederle un momento per ritrarsi. Ma Roberta rimase immobile, ipnotizzata da quegli occhi che la fissavano con una fame che nessuna donna le aveva mai rivolto.
Quando le loro labbra si incontrarono, il mondo attorno svanì. Rebecca la baciò con una sicurezza che annullava ogni dubbio, ogni esitazione. Le sue mani scivolarono sul copro Roberta con naturalezza, come se conoscesse già ogni curva, ogni punto sensibile di quel corpo.
La camicia venne brutalmente strappata via mentre Rebecca, come in un tango perfettamente coreografato, la guidava verso la camera da letto. Ruzzolarono nel letto che era ancora intriso dell’odore di Dago, un profumo maschile che sembrava amplificare, anziché disturbare, l’elettricità che correva tra loro.
Solo per un millesimo di secondo, un pensiero attraversò la mente di Roberta come un lampo di lucidità in una tempesta di sensazioni: “Cosa stai facendo? Da quando sei attratta dalle donne?” La domanda risuonò dentro di lei, quasi accusatoria, ma stranamente priva di peso. Forse era sempre stato lì, quel desiderio, come un colore invisibile nello spettro che solo ora riusciva a vedere. O forse era semplicemente il momento, la persona, la situazione ad averlo risvegliato.
Qualunque fosse la risposta, Roberta scelse di non ascoltare quella voce. Il corpo aveva già deciso, aveva già risposto con un linguaggio più antico delle parole. Iniziò a spogliare Rebecca con una frenesia che sorprese lei stessa, il vestito sottile quasi si strappò sotto la furia del desiderio, ma finalmente anche lei era nuda.
Il corpo di Rebecca era una rivelazione, la pelle bianchissima come porcellana animata, su cui risaltavano due capezzoli rosso fuoco, carnosi e invitanti. Un sottile triangolo di peli biondi, tagliato con precisione quasi geometrica, nascondeva appena le labbra del suo sesso.
Le mani e la bocca di Roberta si mossero con una sicurezza che non sapeva di possedere. Si dedicò a quei seni magnifici, a quei capezzoli che reagivano al minimo tocco, inturgidendosi sotto la sua lingua. Più si indurivano, più sentiva crescere in sé una fame vorace, leccando, succhiando, stringendoli tra le dita e mordendoli con delicata insistenza.
Rebecca rispose avvinghiandosi con le gambe ai fianchi di Roberta, strofinando il proprio sesso contro la sua pancia in un movimento ondulatorio che parlava di urgenza e desiderio.
Il segnale era chiaro, e Roberta scoprì di non vedere l’ora di esplorare quel territorio sconosciuto eppure stranamente familiare. Scivolò lungo il corpo di Rebecca, facendo scorrere la pelle contro la pelle, assaporando ogni centimetro di contatto. Si fermò quando i suoi seni incontrarono la fessura umida tra le cosce dell’altra, strofinandoli deliberatamente contro di essa, guardando affascinata i propri capezzoli che scivolavano tra quelle labbra rosee, sul clitoride già gonfio.
In quel momento Roberta comprese, con una chiarezza cristallina, l’attrazione che Dago provava nel donarle piacere orale. Il profumo, il calore, la vulnerabilità di una donna aperta e offerta — tutto aveva improvvisamente senso. Con reverenza mista a curiosità, assaggiò per la prima volta il sapore di un’altra donna. La sua lingua, incerta all’inizio, trovò presto un ritmo naturale, guidata dai gemiti e dai movimenti di Rebecca.
Nella sua inesperienza, guidata solo dall’istinto e dal ricordo di ciò che piaceva a lei stessa, Roberta riuscì a portare Rebecca all’orgasmo con una rapidità che sorprese entrambe.
Dopo poco sentì le mani di Rebecca afferrarla, dita affusolate che si insinuavano tra i suoi capelli con delicata fermezza. Un sussulto di sorpresa le percorse la schiena quando fu tratta verso l’alto, allontanata da quel nettare che aveva appena iniziato ad assaporare.
“Eppure … non si direbbe che … è la tua prima esperienza…” La voce di Rebecca era quel suono liquido e melodioso che solo una donna che ha goduto sa emettere, ma vi serpeggiava ancora un desiderio insoddisfatto. Le sue iridi, ormai ridotte a sottili anelli celesti attorno a pupille dilatate, riflettevano una promessa di sapienza carnale. “Ora tocca a me. Ora ti faccio sentire come una donna lecca un’altra donna…”
Con l’eleganza predatoria di un felino, Rebecca ribaltò la posizione. Un movimento coreografato, che trasformò Roberta da esploratrice a territorio da esplorare. Le bocche si cercarono nuovamente in un bacio che sapeva di donna, un sapore che Roberta riconobbe con un brivido di stupore come il proprio.
Rebecca iniziò a muoversi su di lei in una danza sinuosa. Seno contro seno — una geografia di morbidezze che si incontravano, capezzoli che dialogavano in un linguaggio tattile di durezze e fremiti. Pube contro pube — una frizione umida e calda che parlava di desideri gemelli. Ogni zona erogena, ogni ricettacolo di piacere di Roberta trovava il suo corrispondente, il suo riflesso speculare nel corpo dell’altra.
Era così tutto diverso, tutto nuovo e così conosciuto, da risultare vertiginosamente eccitante. Ciascun punto di contatto rappresentava un universo di sensazioni diversamente nuove, un dialogo corporeo che trascendeva la parola. Quegli occhi cerulei la penetravano come mai era stata penetrata prima, leggendovi voglie che nemmeno lei sapeva di possedere.
Le mani di Rebecca la toccavano con una perizia che nessun uomo aveva mai dimostrato. Gli stessi luoghi, le stesse valli e colline di carne che molti altri avevano esplorato, ma con una grazia, una precisione, un’attenzione che solo una mente femminile poteva conoscere veramente. Ogni carezza sembrava dire: “Io so esattamente cosa senti, perché lo sento anch’io.”
La sentì scivolare lungo il proprio corpo, tracciando con lingua e labbra un percorso discendente che evocava la traiettoria che lei stessa aveva percorso poco prima. Istintivamente, come rispondendo a un richiamo ancestrale, Roberta allargò le gambe, offrendosi a quella bocca sapiente.
“Secondo me, hai ancora voglia di leccarmela…” mormorò Rebecca, ruotando il proprio corpo in una danza contorta che la portò a posizionarsi in un perfetto sessantanove. Senza attendere risposta, affondò il viso tra le cosce di Roberta, afferrandola per le natiche ed iniziando a leccarla con la foga controllata di chi conosce esattamente la mappa del piacere femminile.
La lingua di Rebecca trovò immediatamente il sentiero verso l’estasi, senza tentennamenti, senza esitazioni. La stimolava con una maestria che solo anni di intimità con corpi femminili potevano conferire. Roberta si sentì invadere da ondate di piacere che partivano dal basso ventre e si irradiavano fino alle estremità, facendole formicolare le dita dei piedi e delle mani.
La visione della vulva di Rebecca, sospesa a pochi centimetri dal suo viso, una rosa carnosa che profumava e gocciolava di desiderio, la risvegliò dal torpore estatico. Le dita aprirono delicatamente quelle labbra, esponendo la clitoride turgida che catturò tra le proprie labbra, iniziando a succhiarla come avrebbe fatto con il glande di Dago, una trasposizione istintiva che strappò a Rebecca un gemito di approvazione.
Mentre le sue dita esploravano la cavità umida dell’altra, Roberta sentiva la lingua di Rebecca imitare lo stesso movimento dentro di sé, creando un cortocircuito di piacere in cui ogni sensazione ricevuta diventava ispirazione per quella donata. Si dedicavano l’una all’altra con una devozione quasi sacrale, mentre stimolavano reciprocamente l’apertura anale con dita curiose, esplorando ogni possibile fonte di godimento, concentrate più sul piacere che sulla ricerca dell’orgasmo.
Dopo un tempo che sembrava sospeso, al di fuori delle leggi ordinarie della fisica, raggiunsero simultaneamente l’apice del piacere. Un orgasmo che sembrò unirle in una singola entità vibrante, una sorellanza carnale che trascendeva il puramente fisico per toccare qualcosa di ancestrale e collettivo.
“Mi allontano un attimo, e questo è quello che succede in casa mia?”
La voce di Dago risuonò nella stanza come un tuono in un giorno sereno. Le due donne, ancora avvinte in quell’abbraccio carnale, si immobilizzarono per un istante. Erano state talmente assorte nella loro esplorazione reciproca da non aver udito la porta d’ingresso aprirsi, né i passi che si avvicinavano lungo il corridoio.
Roberta sentì un’ondata di calore salirle al viso, un rossore che si estendeva fino al petto. L’imbarazzo, però, durò solo il tempo di un battito di ciglia. Negli occhi di Dago non vide disapprovazione o sorpresa, ma una fiamma oscura di desiderio che le era ormai familiare. Era rimasto a osservarle, immobile come una statua, per un tempo indefinito prima di rivelare la propria presenza.
“Perché non ti unisci a noi? Ti stavamo aspettando…” Fu la risposta provocatoria di Rebecca che, lungi dall’essere imbarazzata, sembrava aver previsto questo sviluppo. La sua voce conteneva una familiarità che suggeriva che non era la prima volta che condividevano una situazione del genere.
Nel frattempo, lui si era avvicinato al bordo del letto con movimenti felini, la camicia già abbandonata a terra, i pantaloni aperti quel tanto che bastava a mostrare un’erezione affamata. Si fermò a pochi centimetri da Rebecca, l’eccitazione che emanava dal suo corpo come calore visibile.
Rebecca non esitò. Mentre, con dita esperte, continuava a stimolare la fessura umida di Roberta, si sollevò leggermente, avvicinando le labbra all’erezione che puntava verso di lei come un’arma carica. Mentre il membro di Dago scompariva nella sua bocca, i pantaloni scivolarono a terra.
Roberta osservava la scena da una prospettiva privilegiata, ipnotizzata dalla bocca di Rebecca che avvolgeva il sesso di Dago. Sapeva di essere ospite, di avere il privilegio di assistere a un rituale intimo che esisteva da prima del suo arrivo. Con metodica precisione, Rebecca succhiò e leccò quell’asta fino a renderla rigida come marmo levigato, i suoi occhi azzurri che non abbandonavano mai quelli di Dago, comunicando in un linguaggio silenzioso ma eloquente.
Dopo averlo assaporato quanto bastava, si sfilò lentamente, un sottile filo di saliva che ancora la collegava alla cappella turgida. Si mosse indietro sul letto, mentre le mani tenevano aperte, spalancate le gambe di Roberta, offrendola come un dono prezioso.
L’eccitazione di Dago aveva raggiunto nuovi vertici. I suoi occhi, scuri di desiderio, guizzavano da una donna all’altra, assorbendo lo spettacolo che si dispiegava davanti a lui. La sua bocca cercò quella di Rebecca in un bacio che parlava di complicità e storia condivisa, mentre una mano veniva catturata da lui e guidata verso il suo sesso eretto.
Rebecca, cosciente del proprio ruolo in quel triangolo di carne e desiderio, mentre continuava a strofinare il proprio sesso sul viso di Roberta, guidò con precisione chirurgica la cappella turgida di Dago verso la fessura bagnata e accogliente di Roberta.
Il contatto iniziale tra il glande e la figa di Roberta fu come una scossa elettrica che le attraversò la spina dorsale. Sentirlo penetrare lentamente, riempirla con quella familiarità che il suo corpo già riconosceva, mentre la figa di Rebecca si strofinava sul suo viso, creò un nuovo cortocircuito di sensazioni che minacciava di farla impazzire di piacere.
Roberta si sentiva al centro di un universo di sensazioni. Oggetto e soggetto di piacere, giocattolo e giocatrice, in balia di due persone che si muovevano con la sintonia di chi ha danzato insieme molte volte. Era una tempesta di emozioni contraddittorie: la gelosia che si trasformava in eccitazione, la vulnerabilità che diventava potere, l’essere usata che si traduceva in libertà assoluta.
Tutti questi pensieri vennero disintegrati come cristallo sottile sotto le spinte decise di Dago che prendeva possesso della sua femminilità con un’intensità differente. Aveva la netta sensazione che si muovesse in modo diverso, più selvaggio, più primitivo, come se la presenza di Rebecca avesse liberato una parte di lui che non aveva potuto conoscere prima. Di conseguenza, le onde di piacere che la attraversavano avevano una nuova geometria, un’intensità che sfiorava il dolore.
Si abbandonò completamente a quella corrente impetuosa, affamata di quelle sensazioni che la stavano travolgendo. Mentre le dita di Rebecca aggiungevano perle di piacere qui e là.
Poi l’assenza. Il vuoto lasciato dal cazzo di Dago quando abbandonò la sua carne. Un vuoto subito colmato dalla bocca famelica di Rebecca, le cui dita proseguivano la loro danza oscena. Non era la stessa cosa, eppure c’era qualcosa di blasfemo, di sacrilego nel modo in cui quella lingua femminile la possedeva dove un momento prima c’era stato lui.
Le dita di Rebecca le violavano entrambe le aperture con una facilità sorprendente, come se avesse mappato quel corpo mille volte in qualche vita parallela. Dentro, fuori. Esplorando. Invadendo. Le unghie smaltate graffiavano appena le pareti interne, un dolore sottile che amplificava ogni altra sensazione. Mentre quella lingua, dio, quella lingua, non concedeva tregua al suo clitoride, ormai gonfio e ipersensibile come una ferita aperta.
Lo vide ricomparire, quel fallo lucido dei suoi umori, stagliarsi contro la carnagione pallida di Rebecca, aprirsi un varco tra le sue natiche con brutalità calcolata. Rebecca lo voleva così – selvaggio, dominante – lo si capiva dal modo in cui inarcò la schiena per accoglierlo, dal gemito strozzato che le uscì dalla gola mentre lui affondava nel suo culo con un unico movimento imperioso.
Roberta osservava, ipnotizzata, questa violazione consensuale. Attraverso la nebbia del proprio piacere, immaginava il volto di Rebecca contrarsi in quella smorfia ambigua, sospesa tra estasi e dolore, mentre il cazzo di Dago scompariva tra le sue chiappe come un’arma che torna nel fodero. Era pornografia in carne e ossa, a pochi centimetri dal suo viso, talmente reale da sentirne l’odore, il calore, il suono osceno di carne dentro carne.
La sua lingua trovò istintivamente la figa di Rebecca – più per fame che per generosità – leccando con ferocia quel nettare che colava in fiotti sempre più abbondanti. Alternava la sua attenzione tra il sesso femminile e le palle di Dago che oscillavano ipnotiche ad ogni spinta. Una depravazione che non sapeva di possedere si impossessò di lei, spingendola a leccare quella giuntura sacrilega dove il maschio penetrava la femmina, assaporando entrambi in un unico gesto.
Questo triangolo di corpi, questa geometria di carne e desiderio, questa trinità profana aveva un ritmo proprio, come se seguissero tutti lo stesso battito primitivo. Roberta fu la prima a cedere, travolta da un orgasmo che le esplose tra le gambe come una granata, scuotendola con violenza tale da strapparle un urlo animalesco. I muscoli interni si contrassero spasmodicamente attorno alle dita di Rebecca, imprigionandole in una morsa umida.
Rebecca la seguì quasi immediatamente, il suo corpo scosso da tremiti sempre più violenti, finché non cedette completamente. Il suo orgasmo fu uno spettacolo di abbandono totale, la figa che pulsava e si contraeva, le labbra che si aprivano in un grido muto. La pioggia calda che investì il viso di Roberta a suggellare la sua resa, uno squirt, un getto potente e incontrollato.
Infine, subito dopo arrivò l’orgasmo di Dago, mezzo nel culo di Rebecca, mezzo schizzando sul viso di Roberta.
Dago si sentiva svuotato fino all’osso, prosciugato. Il suo corpo, quello che riusciva ancora a percepire come suo, giaceva inerte tra le lenzuola impregnate di sesso, come un naufrago spiaggiato dopo la tempesta perfetta. La testa gli pulsava, troppo piena di immagini oscene che rifiutavano di dissolversi. I corpi delle due donne, fusi e separati, congiunti attraverso il suo, geometrie carnali in costante mutazione. Il suo cazzo, ancora sensibile fino al dolore, tremava al semplice pensiero.
Va bene tutto, pensò con amara ironia, ma quando è troppo è troppo.
Si staccò dal groviglio umido di membra femminili, un’impresa che richiese uno sforzo titanico a muscoli che imploravano riposo. L’aria sulla pelle nuda gli parve improvvisamente fresca, quasi purificante. C’era un’urgenza in lui, un bisogno di spazio, di solitudine, un bisogno primordiale che distingue l’uomo dalla donna.
Mentre le due donne restavano distese sul letto, abbandonate all’oblio del piacere, come sirene affamate arenate su un’isola deserta, lui si allontanò barcollando, ogni passo una piccola agonia che mascherava un piacere perverso. Lasciò che i loro sospiri e i loro corpi intrecciati diventassero lo sfondo, un affresco barocco che preferiva contemplare da lontano.
Era ora di cercare pace ed energia in cucina. Il suo stomaco vuoto reclamava attenzione con una voracità che quasi eguagliava quella dei loro sessi. Una colazione abbondante non era più un’opzione, ma una necessità vitale, come l’ossigeno dopo un’immersione troppo profonda.
Roberta scivolò lentamente fuori dal torpore estatico, tornando al mondo dei vivi a piccoli frammenti di coscienza. Aprì gli occhi e si trovò faccia a faccia con Rebecca, i loro respiri che si mescolavano come le loro essenze poco prima. Le labbra ormai nude di rossetto erano leggermente gonfie, tracce livide di morsi e succhiotti costellavano quel collo diafano. Le due donne si sorrisero – quel sorriso compiaciuto, beato, quasi idiota che solo un orgasmo devastante sa disegnare sul volto di chi l’ha sperimentato.
Roberta allungò la mano, lasciandola scivolare languidamente sul corpo dell’altra. Sentì la pelle di Rebecca fremere al contatto, un campo elettrico che si riattivava sotto i suoi polpastrelli. Registrò con stupore come dentro di lei stesse già rinascendo il desiderio, l’appetito bestiale che credeva completamente saziato. I confini che separavano la sua sessualità in compartimenti ordinati si erano dissolti definitivamente, liquefatti dal calore di quella mattina fuori dal tempo.
“È stata la tua prima esperienza saffica?” chiese Rebecca, il tono vagamente materno di chi ha aperto una porta che sa non potrà mai più essere chiusa.
“Sì… nella realtà sì…” Roberta esitò, scrutando dentro di sé alla ricerca di verità sommerse. “Ma la sognavo da tanto tempo…”
Forse mentiva, forse no. Le sembrava che quell’ammissione fosse vera nel momento stesso in cui le parole attraversavano le sue labbra, come se il desiderio si fosse materializzato retrospettivamente, riscrivendo la memoria per adattarsi al presente. Non importava: la linea tra ciò che aveva sempre voluto e ciò che aveva appena scoperto di volere era ormai insignificante.
Rebecca attirò Roberta contro di sé, un gesto che parlava di fame non placata. “Ancora,” sussurrò semplicemente, non una domanda ma una constatazione. I loro corpi si cercarono nuovamente nel silenzio della camera, memorie tattili che si riconoscevano già. Le mani ripresero a tracciare mappe segrete sulla pelle dell’altra, antichi percorsi verso un piacere che sapevano ora esistere oltre i confini del conosciuto. Si scambiarono sguardi che contenevano promesse oscure, mentre i sospiri ricominciavano a riempire l’aria, melodia familiare di un desiderio che rifiutava di morire.
Mentre Dago beveva il suo caffè, riprendendo contatto con la banalità del quotidiano, un pensiero attraversò la sua mente esausta: forse anche loro avevano bisogno di caffè. Con la tazza in mano tornò verso la camera, la curiosità che vinceva la stanchezza. Sulla soglia quasi rovesciò il liquido bollente.
Lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi era tanto ipnotico quanto inaspettato. Le due donne, che credeva esauste quanto lui, erano avvinte in una spirale di lussuria che sembrava non avere fine. Dopo tutto quello che era successo, non si aspettava che avessero ancora l’energia, l’appetito, la fame di continuare.
Per un istante fu tentato. Il suo corpo rispose istintivamente a quella visione, un fremito traditore che attraversò il suo cazzo esausto. Ma la mente, per una volta, prevalse sulla carne. Forse l’attrazione e le sensazioni di un rapporto saffico andavano oltre la sua comprensione maschile, appartenevano a un universo di piacere a cui lui poteva solo assistere da spettatore privilegiato. Di una cosa era certo: non aveva più le forze per partecipare.
Si girò silenziosamente e tornò in cucina a finire il suo caffè, con la saggezza di chi sa riconoscere quando uscire di scena. Lasciò che le due donne si prendessero tutto il piacere di cui avevano bisogno, senza interferire, testimone invisibile di un mistero che trascendeva la sua esperienza.
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