Corrispondenze Carnali - Capitolo 5 - La Maschera e l’Obiettivo

  • Scritto da DagoHeron il 19/05/2025 - 07:18
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Roberta e Dago si risvegliarono che era pomeriggio inoltrato, la luce obliqua che filtrava dalle persiane semichiuse disegnava strisce dorate sulla pelle nuda. I loro corpi, segnati dalle ore di abbandono, reclamavano nutrimenti primari. Rebecca era scivolata fuori dall’appartamento silenziosa e ora la fame era l'unica cosa che sentivano più della stanchezza – quel tipo di fame vorace che segue l'estinzione temporanea del desiderio carnale.

Dago aveva riempito un vassoio con tutto quello che era possibile mangiare stando a letto – pane, formaggi, frutta, cioccolato, bottino di una rapida incursione in cucina. In compagnia di un Syrah corposo erano rimasti nudi sotto le lenzuola stropicciate, creando una fortezza di intimità dove i corpi potevano nutrirsi mentre le menti ricucivano lentamente il velo di civiltà che il sesso aveva lacerato.

Lo sguardo di lui indugiava sulle curve di Roberta con la meraviglia di un esploratore che non crede ancora alla terra scoperta. La guardava mangiare, bere, ridere, atti banali trasformati in rituali ipnotici dall'elettricità residua che ancora scorreva tra loro.

Lei emetteva piccoli suoni di soddisfazione mentre sorseggiava il vino, il corpo languidamente abbandonato nel torpore post-coitale. I suoi sensi, ancora eccitati come corde di violino troppo tese, continuavano a trasmetterle echi delle sensazioni vissute, fantasmi di piacere che attraversavano la sua carne a intervalli irregolari.

Con riluttanza si erano infine rivestiti, rientrando controvoglia nel mondo reale. La decisione di accompagnarla a casa aveva sospeso quel bozzolo di intimità creatosi tra loro, imponendo il ritorno alla quotidianità come una sentenza inevitabile.

Dago fluttuava in uno stato di ebbrezza emotiva, la mente già proiettata in un futuro dove i loro corpi si sarebbero cercati ancora. Costruiva castelli di desiderio nell'aria, pianificando momenti che non conoscevano ancora la fragilità del tempo. Non riusciva però a ignorare come l'umore di lei fosse cambiato, il suo volto, prima rilassato nella soddisfazione, si era incupito, attraversato da ombre che lui non riusciva a decifrare.

Quella metamorfosi lo innervosiva, come se un presagio freddo gli avesse sfiorato la nuca. Iniziò a parlare ininterrottamente, un fiume di parole che serviva più a soffocare il silenzio che a comunicare davvero.

Le confessò vulnerabilmente le sue fantasie più profonde, le trame del desiderio che aveva tessuto nella sua mente durante quelle poche ore. Le rivelò i suoi sogni, quei progetti nascenti che lei, senza saperlo, aveva già infranto.

Mentre si avvicinavano alla macchina, Roberta sentiva lo stomaco contrarsi in un nodo sempre più stretto. Una consapevolezza dolorosa cresceva dentro di lei. Stava per abbandonare qualcosa di cui aveva appena scoperto il valore. Peggio ancora, leggeva negli occhi di lui quella luce che precede la caduta, quell'entusiasmo ignaro che rendeva la sua partenza una doppia crudeltà.

Entrati in macchina, Roberta trovò finalmente il coraggio di interrompere quel monologo febbrile. Posò una mano sul suo braccio, un gesto che conteneva già un addio.

"Dago..." La sua voce tremò leggermente. "Non so come dirtelo, ma domani pomeriggio parto. Parto per New York."

Le parole caddero tra loro come pietre in uno stagno, creando onde concentriche di silenzio. Per Dago, fu come un colpo sferrato direttamente alla bocca dello stomaco, un pugno che gli tolse il respiro. Il corpo, ancora segnato dalla memoria tattile della sua pelle, sembrava improvvisamente vuoto, una conchiglia abbandonata sulla riva.

Nonostante lo stordimento, tentò di aggrapparsi a un fragile filo di speranza: "Beh, non starai via per sempre, tornerai prima o poi..."

La sua voce tradiva quella disperazione malcelata di chi sa già la risposta ma implora una bugia consolatoria.

"Vado a New Work per lavoro. Mi trasferiscono là." Gli occhi di lei, che lo avevano fissato con desiderio poche ore prima, ora sembravano guardare oltre di lui, verso un orizzonte lontano. "Non ho la minima idea per quanto tempo ... proprio non lo so."

Il mondo di Dago collassò come una stella morente. La struttura fragile delle sue fantasie appena costruite si disintegrò in polvere di rimpianti. Il suo viso assunse l'espressione smarrita di un bambino a cui fosse stato mostrato il paradiso solo per vedersi negare l'ingresso – la crudeltà particolare di aver assaggiato ciò che non si potrà mai davvero possedere.

Senza aggiungere parole, accese il motore, un ronzio meccanico che riempiva il silenzio. La macchina si immise nel traffico scarso della domenica, mentre dentro di lui calava un silenzio più profondo del semplice ammutolirsi.

Roberta capiva perfettamente quello che Dago provava; dentro di lei lo stesso dolore si espandeva. Poche ore prima, New York le sembrava la conquista finale, il trofeo dopo anni di battaglie in uffici angusti. Ora appariva come un esilio dorato. Ma non poteva ribellarsi al destino che lei stessa aveva invocato. Quel lavoro, quel posto, se l'era guadagnato con fatica metodica, con ambizione lucida. Rinunciare alla responsabilità della sede newyorkese significava tradire la donna che era sempre stata.

Non poteva prevedere che quella sera, a quella banale cena tra volti sbiaditi dall'abitudine, avrebbe incontrato lui. Ma cosa rappresentava Dago, in fondo? Un'incidente biologico, un tremore temporaneo nella carne. Era forse più importante di quel sogno che ora prendeva forma dopo anni di sacrifici? Poche ore di conoscenza, per quanto incise a fuoco nei nervi, non potevano sovvertire la gerarchia delle priorità che aveva costruito con tanta cura.

Eppure, il corpo sapeva cose che la mente rifiutava di accettare.

Si appoggiò con la testa sulla spalla di Dago, il profumo di lui che la circondava come una sostanza alterante. Le dita cercarono spontaneamente la pelle sotto i bottoni della camicia, desiderose di un ultimo contatto, di un'ultima memoria tattile da portare attraverso l'oceano. Li slacciò uno ad uno, metodicamente, come se stesse aprendo una porta segreta. Si spinse verso di lui, trovando il collo con le labbra, stuzzicando il lobo dell'orecchio con piccoli morsi, la lingua che tracciava spirali umide sul punto dove sentiva pulsare la giugulare. Gli respirava contro, infettandolo del proprio desiderio, della propria urgenza d'addio.

La mano scivolò sui pantaloni, seguendo l'istinto più antico di consolazione e possesso. Sentì l'erezione premere contro il tessuto, animale imprigionato che cercava di raggiungerla. Con gesti decisi, eliminò anche quell'ultima barriera, liberando il sesso che già pulsava in anticipazione. Lo fissò per un istante, magnetizzata dalla trasformazione della carne sotto il suo tocco. La mano iniziò a muoversi su e giù, seguendo un ritmo che sembrava arrivare dal pulsare del proprio sesso, sentendo l'indurirsi progressivo, quell'espansione del tessuto erettile che rispondeva al suo comando.

Le venne fame di lui, non una fame metaforica, ma una necessità viscerale di assaggiare, incorporare, possedere attraverso la bocca. Si lasciò scivolare verso il basso, piegandosi in quello spazio ristretto fino a trovare con le labbra la cappella già lucida. Lo accolse lentamente, centimetro dopo centimetro, godendo della pressione sulla lingua, dell'invasione controllata che le riempiva la bocca. Il cazzo scivolava tra le sue labbra con una familiarità che sembrava impossibile dopo così poco tempo, come se i loro corpi si fossero sempre conosciuti, avessero sempre parlato questo linguaggio ancestrale. Esplorò con la lingua la vena sporgente lungo l'asta, la corona sensibile del glande, mentre le dita giocavano con lo scroto, accarezzavano i testicoli, li stringevano delicatamente, massaggiandoli come per estrarne il contenuto prezioso.

La mano di Dago scivolò sotto il suo corpo con la decisione di chi cerca un tesoro familiare. Sapeva esattamente cosa volesse trovare. Lei, complice, si sistemò sul sedile, in ginocchio, le cosce aperte in offerta, concedendogli l'accesso che chiedeva.

La macchina proseguiva la sua corsa a singhiozzo, il motore che protestava per la guida distratta, una marcia tenuta troppo a lungo. Ma loro esistevano in una bolla temporale separata, dove la meccanica di un'automobile era irrilevante rispetto alla meccanica dei corpi. Roberta, stimolata dalle dita che la invadevano con crescente insistenza, accelerò i movimenti della bocca. Le dita di lui la violavano con precisione chirurgica, sapevano esattamente dove premere, quale ritmo imporre. Non stava solo ricevendo piacere; stava memorizzando ogni sensazione, catalogando ogni sfumatura di quell'essere riempita, posseduta, preparandosi a rievocarlo nelle notti solitarie che l'aspettavano.

Voleva imprimersi nella memoria ogni millimetro di quel sesso, la consistenza, il sapore, il calore. Voleva che l'ultimo sapore in bocca, prima della partenza, fosse quello del suo sperma.

Le dita esperte la portarono rapidamente verso l'orgasmo, troppo velocemente, quasi volesse bruciare le tappe, accelerare ciò che avrebbe voluto durasse all'infinito. Sentì la cappella ingrossarsi ulteriormente nella sua bocca, le pulsazioni che presagivano l'imminenza dell'esplosione.

L'orgasmo la attraversò come una corrente elettrica, un cortocircuito che partiva dalla figa e si irradiava fino alle estremità. Il suo gemito soffocato attorno al cazzo di lui creò vibrazioni che provocarono l'inevitabile. Il primo schizzo caldo la colpì in fondo alla gola, una firma liquida, un marchio di possesso che lei accoglieva avidamente. Mentre i suoi umori bagnavano la mano di Dago, inondandogli il palmo, lei succhiava con ferocia metodica, estraendo fino all'ultima goccia di sperma, ingoiando quel fluido come un viatico per il viaggio che l'attendeva.

Con la devozione meticolosa di una sacerdotessa, si assicurò che non restasse traccia, ripulendo ogni residuo con la lingua. Lo baciò un'ultima volta – delicatamente, quasi con reverenza, prima di riporlo nei pantaloni, un gesto che aveva la solennità di un rito di chiusura. La macchina rallentò, accostando al marciapiede, proprio mentre lei terminava quell'ultimo atto di intimità, quel commiato carnale che avrebbe dovuto saziarla per il tempo a venire.

Lo baciò, più per sigillare la sua bocca che per desiderio. Un gesto chirurgico, una censura di carne contro carne. Sapeva che qualunque parola fosse uscita da quelle labbra in quel momento sarebbe stata una lama sottile nel suo petto, una verità che non era pronta a sopportare. Quel bacio aveva la disperazione degli ultimi atti, feroce, prolungato, quasi doloroso, mentre la mano di lui ancora riposava sulla sua femminilità, intrisa di quel piacere appena condiviso.

Gli addii le risultavano insopportabili per natura. Questo, però, lo detestava con un'intensità viscerale che la sorprendeva.

Quando finalmente si separarono, un filo invisibile ancora teso tra loro, lui compì un gesto che le trafisse il cuore. Si portò le dita alla bocca, quelle stesse dita che l'avevano esplorata, e le succhiò con lentezza deliberata, guardandola negli occhi.

"Addio," disse lei, condensando in due sillabe una resa completa.

"Arrivederci," rispose lui. La differenza semantica era la sua trincea, il punto oltre il quale rifiutava di ritirarsi.

Si infilò rapidamente in casa, ogni passo che la allontanava da lui un piccolo tradimento. Finse di controllare i bagagli, i documenti, gli ultimi preparativi per la partenza, ma la mente vagava come un'anima dannata in purgatorio.

Dago schizzò nel traffico cittadino, spingendo il motore oltre i limiti di prudenza, guidando senza meta fino a quando la notte non divorò il giorno. Non cercava destinazioni, solo velocità sufficiente a diluire la rabbia che gli corrodeva lo stomaco come acido.

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New York e il suo lavoro non erano stati come i miti urbani promettevano. La città, quel brutale collage di vetro e ambizione, l'aveva rifiutata come un trapianto incompatibile. Per diciotto mesi aveva respirato quell'aria carica di fretta e pretesa, senza mai sentire quel battito vitale che i nativi giuravano esistesse sotto l'asfalto. Non era questione d'emarginazione; era una dissonanza più sottile, un'interferenza costante tra la sua frequenza italiana e quella metropolitana americana.

Ora sedeva nell'aereo che tagliava l'Atlantico in direzione opposta, il corpo rilassato contro il sedile come non era mai stata a Manhattan. Tornava in Italia. La parola "casa" le risuonava dentro piacevolmente.

Guardava fuori dal finestrino, lasciando che la mente vagasse libera, ricordando gli amici, che avevano continuato la loro vita e, inevitabilmente, a Dago. Non solo ricordava, ma fantasticava, sperava, nella possibilità di riprendere quel rapporto, continuare qualcosa che non aveva mai avuto un vero inizio, ma che avevano tenuto vivo come potevano.

Aveva iniziato a scrivere la prima mail mentre era ancora sull’aereo. Gliel’aveva mandata un paio di settimane dopo il suo arriva a New York. I primi scambi erano stati cauti, quasi formali - l'incertezza di chi tasta un terreno pericoloso. Poi Dago aveva abbattuto il primo muro. In una notte d'insonnia le aveva mandato un racconto, una fantasia così esplicita, così precisamente calibrata sui suoi desideri nascosti, che l'aveva fatta tremare. Era ciò che sognava di fare con lei, un frammento della galleria privata che lo accompagnava nel letto solitario quando pensava a lei.

Dalle mail erano poi passati alle telefonate fino ad arrivare alle videochiamate. Gli scambi e le richieste erano man mano cresciuti, nutrendo il desiderio e le fantasie dell’altro. Facendosi promesse di incontrarsi fino ad allora inattese per impegni vari.

Il suo ritorno non era programmato - una di quelle riorganizzazioni aziendali che arrivano improvvise. Decise su due piedi di fargli una sorpresa, materializzandosi come un fantasma dei suoi sogni. Ma voleva qualcosa di speciale

Fu uno dei suoi racconti a ispirarla - una storia dove la protagonista si sottoponeva a un servizio fotografico erotico, un'esposizione deliberata all'occhio meccanico che era anche un'affermazione di potere. L'idea si formò spontaneamente: diventare quella donna, trasformare la fantasia in documento tangibile.

Non aveva molto tempo per organizzare il tutto, cercò freneticamente nel web fino a quando incappò in un sito minimalista, nero con caratteri bianchi: "Dax - il fotografo del tuo lato nascosto". Il portfolio mostrava donne trasformate in geometrie di luce e desiderio, nudi che erano più rivelatori di qualunque abito.

Fu uno scambio frenetico di mail e messaggi per fissare la data, concordare il prezzo, decidere che tipo di servizio Roberta volesse. Ovviamente, per proteggersi, aveva dato un nome di fantasia.

L'appuntamento fu fissato per il giorno dopo l'atterraggio. Da quel momento, la sua mente diventò un laboratorio creativo ossessivo. Doveva bilanciare perfettamente seduzione e mistero, creare un'identità temporanea che nascondesse la vera Roberta fino al momento giusto. La sorpresa non doveva essere solo un colpo di scena, ma una rivelazione che confermasse quanto profondamente lo conosceva.

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Dopo la partenza di Roberta, Dago precipitò in un periodo di apatia clinica. I colori sbiadirono, i sapori divennero cartone, il tempo un liquido viscoso che non scorreva mai. Poi una sera, mentre la luce moriva oltre la finestra, aveva acceso distrattamente il computer e trovato quella e-mail, il suo nome comparso nella casella di posta come un bagliore in una miniera abbandonata. Qualcosa in lui si era rianimato.

La loro corrispondenza evolse come una droga che aumenta gradualmente il dosaggio. Inizialmente cauta, poi più familiare, infine pericolosamente intima. Una notte, una di quelle in cui l'insonnia sembrava l'unico stato possibile, la sua mente aveva iniziato a produrre immagini di Roberta con tale intensità che le sue dita avevano iniziato a battere sulla tastiera autonomamente. Nasceva così il primo racconto: una cronaca dettagliata e spietata di ciò che avrebbe desiderato farle, una mappa del suo corpo tracciata a memoria, una serie di atti che trasformavano il sesso in un rituale, la carne in sacramento. L'aveva inviata dopo tre riletture, con il cuore che batteva come un adolescente alla prima confessione.

La risposta di lei fu uno specchio ustorio, concentrando il desiderio fino a renderlo incandescente. Roberta divenne simultaneamente musa e committente, il pubblico perfetto per le sue perversioni letterarie. Quella prima storia aveva aperto una valvola, scatenato qualcosa di nuovo.

La routine asfissiante del lavoro manageriale gli divenne insopportabile con la lucidità di chi ha trovato un'alternativa più vitale. Si mosse con la determinazione metodica degli ossessivi: corsi di web design, workshop di scrittura creativa, tutorial infiniti di fotografia digitale. Ogni skill acquisita era un nuovo tentacolo che lo liberava dalla gabbia dell'ufficio.

Vagando per la rete, quella tana di Bianconiglio dove ogni click può condurti in dimensioni parallele, aveva scoperto un nuovo territorio da esplorare. Un incrocio perfetto tra le sue nuove competenze e il suo antico appetito.

Aveva aperto il suo studio in un ex magazzino, sui navigli milanesi. Inizialmente era la realizzazione di siti web a fargli sbarcare il lunario, poi iniziò a promuovere servizi erotici d'autore: non la volgarità scontata delle pose da porno, ma eleganza studiata. Filtrava accuratamente cercando di evitare di ritrovarsi a fare servizi inutilmente pornografici.

Il suo vero dono trascendeva la mera tecnica fotografica, era un'alchimia tra competenza e magnetismo. Manipolava la luce come altri manipolano la carne. La faceva scorrere sui corpi femminili come un liquido caldo che solidificava solo nei punti giusti, rivelando aspetti nascosti, curve che nemmeno le proprietarie riconoscevano come proprie. Ogni scatto diventava un'esaltazione della femminilità, una esaltazione del desiderio attraverso la sua visione dei corpi.

Ma era soprattutto il suo fascino a trasformare quelle sessioni in rituali di metamorfosi. La voce profonda che pronunciava istruzioni semplici come incantesimi; il suo modo di muoversi, plastico ed il mistero che gli conferiva la bandana che gli mascherava parzialmente il viso, creando quell'anonimato parziale che permetteva alle donne di proiettarvi fantasie inconfessabili.

La bandana nera che gli copriva metà viso, come un moderno Fantasma dell'Opera, era nata per puro caso. In un baule di costumi teatrali acquistato a un'asta fallimentare, aveva trovato quella striscia di seta nera. Per curiosità l’aveva indossata, poi era suonato il campanello e si era dimenticato di toglierla.

La cliente, una signora aristocratica dalla postura impeccabile e con un corpo che dichiarava guerra al tempo, lo aveva osservato, scansionato, con attenzione. La bandana, la camicia nera aperta, il pantalone nero. L'aria tra loro si era ispessita, carica di particelle invisibili. Mentre la fotografava, aveva notato come il respiro di lei cambiava ogni volta che si avvicinava per modificare una posa.

Aveva continuato a fotografarla, avevano continuato quella danza per un’altra mezzora, entrambi sentendo una tensione diversa crescere tra di loro. Aveva fatto l’ultima foto, aveva appoggiato la camera e si era ritrovato a pochi millimetri da lei, le sue mani avevano aperto i suoi pantaloni e iniziato a giocare con il suo cazzo. "Non togliere la maschera," gli aveva sussurrato mentre lo guardava dal basso. "Ti rende pericoloso, inaccessibile. Un contenitore vuoto per le mie fantasie." Poi lo aveva guidato dentro di lei, nella sua bocca, nella sua figa, nel suo culo. Per ore l'aveva consumato, con la precisione metodica di chi sa esattamente cosa cerca nel corpo di un altro.

Nel giro di pochi giorni sette amiche di quella donna si prenotarono per un servizio fotografico molto particolare. Per questo motivo decise di mettere a punto un particolare sistema di prenotazione che gli permettesse di capire come concludere il servizio e quale tariffa applicare, se quella del fotografo o quella del gigolò.

La maschera divenne il suo marchio, la sua personificazione alternativa. "Dax" era nato, un'identità che gli permetteva di esplorare zone di sé che aveva sempre represso. Col tempo, i servizi fotografici erano diventati per molte clienti un semplice preludio, un rituale necessario prima dell'inevitabile conclusione a qualcosa di molto più appagante.

Lasciò l'appartamento con un'energia insolita. L'aria di Milano aveva finalmente abbandonato l'ostilità invernale, caricandosi di promesse primaverili. Si diresse verso un'osteria nei pressi dello studio, uno di quei locali con l'illuminazione calibrata per dissolvere i confini tra persone. Ordinò un risotto alla milanese e un litro di rosso della casa. Mangiava con lentezza deliberata, lo sguardo che vagava sui volti degli altri avventori. Li studiava come potenziali soggetti delle sue foto o delle sue storie: quell'uomo con le mani callose avrebbe fotografato magnificamente in bianco e nero; quella donna con il collo lungo meriterebbe un'intera serie in controluce. Immaginava le loro vite private, le geometrie dei loro corpi nudi, i suoni che emettevano nell'intimità.

Pagò lasciando come al solito una generosa mancia sul tavolo. Il tragitto a piedi verso lo studio era un rituale necessario, una decompressione graduale che gli permetteva di abbandonare Dago e diventare Dax.

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Roberta aveva reclamato un giorno intero per sé—un lusso dopo due anni in cui ogni minuto sembrava appartenere a qualcun altro. L'idea di un tempo veramente suo, non frammentato da riunioni e scadenze, le procurava una vertigine di libertà quasi ubriacante.

L'estetista l'aveva accolta con professionalità cordiale. Due ore sotto quelle mani esperte. Peeling che rimuoveva strati di tempo americano dalla sua pelle italiana. Massaggi che scioglievano nodi di tensione profondi. Cera calda che rivelava la sua femminilità. Quando si alzò dal lettino, il corpo le apparteneva di nuovo, un territorio riconquistato dopo l'esilio.

Vagò per boutique. I camerini diventarono laboratori dove sperimentare identità provvisorie. Provando un abito dopo l'altro, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lei sapeva.  I negozi di lingerie la trattennero più a lungo. Acquistò completi in quantità irragionevole, come se ogni set potesse incarnare una versione diversa della stessa fantasia. Pizzo, seta, raso—corazze e armi contemporaneamente.

In un piccolo negozio d'antiquariato, scoprì una mezza maschera vintage—un oggetto che sembrava uscito da una festa veneziana di inizio secolo. Argento ossidato che formava arabeschi attorno agli occhi, lasciando libere solo le labbra e il mento. "È stata usata in teatro," spiegò il proprietario, un uomo con mani nodose e un accento straniero. "Nella commedia dell'arte, solo chi indossa una maschera può dire la verità." La comprò immediatamente, riconoscendola come il pezzo mancante del suo travestimento.

Rientrò a casa con borse che sembravano contenere un'identità provvisoria, un'edizione limitata di sé stessa. Rovesciò il contenuto sul letto, dispiegando quel nuovo guardaroba. Si spogliò completamente, osservandosi nello specchio a figura intera. Il corpo che vide era familiare, ma lo sguardo era molto diverso.

Si sedette sul bordo del letto, osservando tutte le cose che aveva comperato, immaginarsi con le varie mise, scatto dopo scatto. Una fame primitiva si risvegliò in lei, un appetito che non poteva più ignorare. Le sue mani iniziarono a scivolare sul corpo nudo, poi velocemente concentrando l’attenzione tra le sue cosce, giocando con il clitoride lasciando crescere il piacere. Si stupì di quanto velocemente si stesse bagnando, di come il corpo avesse anticipato le richieste della mente. Usava le proprie dita come strumenti di precisione, alternando pressione e leggerezza, ritmi circolari e tocchi diretti, giocando con i vari livelli di piacere, cercando di non cedere subito.

La sua mente vagava liberamente tra scenari immaginari, tutti con Dago al centro. Lo vedeva osservare queste stesse dita muoversi dentro di lei. Lo sentiva respirare sopra la sua pelle, un alito caldo che precedeva il morso. Le sue fantasie non erano scenari organizzati, ma frammenti caotici, lampi di carne e desiderio che si accavallavano come un montaggio frenetico.

Si arrese al proprio piacere senza cerimonie, con l'abbandono di chi non deve più rendere conto a nessuno. L'orgasmo la travolse, un'onda improvvisa che si frantumava contro gli scogli della sua coscienza. Il corpo s'inarcò, un arco perfetto di tensione e rilascio, mentre la bocca si apriva in un grido muto. Un fiotto caldo si riversò tra le sue dita, testimonianza liquida del suo abbandonò.

Rimase immobile per qualche istante, le dita ancora posate sul centro del piacere, come se temesse che ritrarle significasse perdere quel momento di perfezione corporea. Poi, lentamente, si distese sul letto, osservando il soffitto come se vi fosse scritta una profezia.

Si alzò con movimenti misurati, determinata a non spezzare quest'atmosfera carica di aspettativa erotica. Davanti allo specchio del bagno, iniziò la trasfigurazione finale. Raccolse i lunghi capelli e indossò una parrucca rosso fiamma, tagliata in un caschetto geometrico che le ridisegnava completamente il volto.

Infine provò ad indossare la maschera, fissandosi allo specchio come se incontrasse un'estranea. L'oggetto argentato le copriva metà del viso, trasformandola in una creatura ibrida, metà donna reale e metà personaggio fantastico. Osservandosi, capì che quella maschera non nascondeva. Sotto quella protezione metallica, una versione più autentica di sé poteva finalmente emergere, una Roberta parallela che esisteva negli interstizi della Roberta quotidiana.

Infilò una camicetta esageratamente trasparente, una gonna con uno spacco ocsceno, e un paio di décolleté dal tacco vertiginoso. Ributtò tutti gli acquisti nel grosso borsone e si coprì con il caldo cappotto pochi secondi prima del trillo del telefono che la informava dell’arrivo del taxi

Scacciò quelle ansie con un gesto mentale deciso. Chiuse la porta dell'appartamento dietro di sé, lasciando la vecchia Roberta rinchiusa lì dentro. Il taxi attendeva già, motore acceso che misurava il tempo verso l'incontro che lei stessa aveva orchestrato.

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La puntualità eccessiva era la sua rituale protezione contro l'imprevisto. Arrivava sempre un'ora prima, quei sessanta minuti necessari per trasformare lo spazio asettico in un tempio della sua particolare liturgia visiva. Controllava le reflex con la delicatezza di un amante, verificando ogni particolare. I flash, posizionati in triangolazioni studiate, venivano testati uno ad uno, le luci che esplodevano nel vuoto come domande senza risposta.

Aveva trasformato lo studio secondo le richieste della cliente. Ma mentre le mani compivano questi gesti automatici, una corrente sotterranea di eccitazione gli attraversava il corpo. Un'inquietudine elettrica, un formicolare nella base della colonna vertebrale che riconosceva come premonitore.

Certe clienti emanavano un campo magnetico già dalle e-mail, dalle telefonate. Questa donna apparteneva a quella categoria, un fascino che trascendeva le banali dinamiche seduttive e toccava qualcosa di più arcaico nei suoi circuiti. Negli anni aveva imparato a rispettare queste sensazioni viscerali; erano state le sue intuizioni più bestiali a guidarlo verso le sessioni più memorabili, verso quelle donne che passavano da soggetti a collaboratrici nel rituale fotografico.

Il suono del citofono lo strappò dalle fantasie con la brutalità di un risveglio. Si mosse verso il monitor con la goffa fretta di chi viene interrotto durante una masturbazione mentale. La figura sul piccolo schermo in bianco e nero gli confermò quelle sensazioni.

Qualcosa in quella silhouette sfocata gli perforava la coscienza come un déjà-vu che non riesce a materializzarsi completamente. Una familiarità che gli pizzicava i nervi, come una melodia dimenticata che si riconosce ma non si riesce a nominare. Il cappotto che avvolgeva quella figura femminile nascondeva i dettagli, ma la postura, quel particolare modo di inclinare leggermente la testa, gli evocava memorie sepolte che non riusciva a dissotterrare completamente.

Un'ondata di calore gli invase il basso ventre. Non solo desiderio, ma qualcosa di più sottile, particolare. Come se qualche parte rettiliana del suo cervello riconoscesse un odore a distanza impossibile, captasse frequenze che la ragione non poteva decifrare.

Premette il pulsante d'apertura senza verificare l'identità, con l'impazienza di un adolescente. Mentre attendeva i passi che avrebbero risuonato sul pavimento di pietra del cortile, si guardò nello specchio, aggiustando la bandana nera che lo trasformava da Dago in Dax, un rituale che gli permetteva di entrare in quel ruolo.

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 Il taxi la scaricò a distanza strategica dallo studio. Preferiva questi ultimi passi a piedi, un tempo necessario per raccogliere i pensieri.

Il vicolo che conduceva all'indirizzo indicato era stretto, quasi claustrofobico. Controllò nuovamente l'indirizzo sul foglietto che teneva in mano. Civico 5. L'edificio davanti a lei era uno di quei vecchi palazzi milanesi che sembrano conservare i segreti di generazioni. Spinse il bottone con una macchina fotografica. La luce della videocamera si accese, scrutandola.

Lo scatto della serratura elettrica le fece accelerare il battito. Spinse il pesante portone di legno, entrando in un cortile tutto ciottoli, un piccolo spazio aperto circondato dalle facciate interne del palazzo. Lo attraversò con attenzione, raggiungend incolume la porta nell'angolo del cortile che Dax le aveva indicato. Suonò nuovamente e un altro scatto le comunicò che poteva entrare.

Prima di varcare la soglia, indossò la maschera che aveva acquistato. Le pareti erano decorate con fotografie in bianco e nero. Si fermò ad osservarle: corpi femminili catturati in momenti di grazia naturale, nessuna volgarità, solo la celebrazione della forma e della luce.

In fondo al corridoio si apriva una stanza molto grande, dove la luce sembrava più intensa. In una zona illuminata diversamente, piena di attrezzature elettroniche, si distingueva di spalle una figura maschile. Al suono dei suoi tacchi, lentamente si girò. Le due figure mascherate si fronteggiarono per qualche istante.

Dago non era la prima volta che si trovava di fronte a una cliente che desiderava celare la propria identità. Roberta invece non si aspettava che il fotografo fosse mascherato e fu colta in contropiede. Trovandosi di fronte quell'uomo con la bandana che gli copriva metà volto, provò una strana sensazione.

Non capiva come, non capiva perché ma come si muoveva, come parlava, come la guardava, risvegliava un ricordo che poteva definire fisico, qualcosa di conosciuto. Eppure, non era in grado di dire quale fosse, a quale ricordo poteva ricollegare quelle sensazioni. Lo vide girarsi, puntando verso di lei la camera con quel grosso obiettivo, come se fosse un fallo. A quel pensiero un brivido le agitò le viscere, per poi correre lungo tutte le sue terminazioni nervose.

Dax il fotografo le andò incontro, le strinse la mano, la guidò in un angolo che aveva allestito come un piccolo salotto. Le offrì un drink e ripresero il discorso sul servizio fotografico. Roberta decise di non raccontare proprio tutto, semplicemente che voleva realizzare un servizio un po’ più che semplicemente sexy per provocare un uomo che non vedeva da tanto tempo. Concordarono che sarebbero partiti con qualcosa di soft e poi piano piano avrebbero scaldato l’atmosfera vedendo fino a dove lei si sentiva di spingersi. Quell’ultimo commento risuonò nella mente di lei come una sfida. In quell’istante decise che, se fosse riuscita a fare eccitare Dax, un professionista abituato a vedere centinaia di belle donne in quelle pose, sicuramente anche Dago avrebbe apprezzato quel regalo.

Lui le indicò un paravento che creava un angolo sufficientemente riservato per cambiarsi e mentre lei si dirigeva in quella direzione, lui torno al set fotografico per gli ultimi ritocchi.

Nel camerino, Roberta estrasse dalla borsa il primo completo, pizzo nero con cuciture rosse. Lo specchio le restituiva un'immagine di sé abitata da un'identità più audace.

Rientrò nello studio, dove Dax aveva modificato l'ambiente, più caldo, più intimo, una trappola di luce e ombre. "Mi raccomando, non fingere di essere una modella. Cerca di essere la donna che sei quando nessuno guarda." La voce dell’uomo era una calda carezza incoraggiante ed eccitante mentre con un ampio gesto della mano le faceva capire che stava a lei decidere da quale set iniziare.

Senza un vero motivo scelse il divano. Lui iniziò a scattare senza avvertirla. La macchina fotografica catturava frammenti della donna mentre lei abbandonava sul divano. Le sue mani iniziarono a vagare sulla stoffa, poi sulla pelle, come se appartenessero a un'altra.

"Mostrami cosa nascondi," la provocò lui, avvicinandosi. "Pensa alla persona per cui stai facendo queste foto."

Le parole fecero vibrare una corda nascosta dentro di lei. Si lasciò scivolare più in basso sul divano, le gambe che si aprivano, l’intimo veniva spostato dalle dita rivelando le sue intimità. La lasciò giocare per un po’ notando tramite gli scatti come il corpo reagiva, come cambiava il respiro, prima di suggerire un cambio.

Sul divano, il suo corpo iniziava a parlare una lingua più sincera. Aveva iniziato con pose rigide, poi incoraggiata e guidata dalla voce di Dax che girava attorno a lei continuando a scattare fotografie, aveva iniziato a lasciare emergere movimenti che appartenevano alla donna autentica sotto la maschera. Le mani di Roberta guadagnavano confidenza mentre scivolavano lungo il proprio corpo, spostando l’intimo, giocando con i capezzoli, con le labbra, con la clitoride, tenendo gli occhi fissi sul fotografo cercando di carpirne l’effetto che avevano su di lui.

"Così," mormorò lui, abbassandosi su un ginocchio per catturare un'angolazione più intima. "Lascia che la stoffa si sposti. Non trattenerla.

Qualcosa nella curva del suo collo mentre si inarcava catturò l'attenzione di Dax. Un déjà-vu carnale che gli fece tremare impercettibilmente le mani. Scacciò l'impressione, rifugiandosi nel professionalismo.

Roberta, scaldatasi, decise di passare a qualcosa di tipicamente più stuzzicante. Stava funzionando. Aveva notato il suo sguardo indugiare nei punti che Dago conosceva bene, aveva visto la sua mascella contrarsi quando aveva allargato le cosce. Si rifugiò dietro il paravento dove indossò un ridottissimo intimo bianco, una camicia bianca che era un velo trasparente che aveva ben poco allacciato e una gonna che era un guanto ridottissimo. Ma soprattutto aveva preparato qualcosa di provocante sia per Dago che per Dax. Si scoprì a desiderare che quell’uomo affascinante e misterioso non solo la desiderasse, ma anche che la possedesse.

Quando si presentò nel set dell'ufficio, lo trovò in ginocchio che regolava una luce. Si voltò, e lei vide chiaramente il suo corpo immobilizzarsi per un istante. Dietro la bandana, i suoi occhi si dilatarono.

"Qualcosa non va?" chiese con finta innocenza.

Dax ci impiegò qualche secondo più del dovuto a rispondere. Il suo cervello rettiliano tentava di mandare allarmi al cervello del fotografo professionista. “No, nulla … “. Avrebbe voluto aggiungere che aveva l’impressione che si erano già conosciuti ma non voleva rischiare di imbarazzarla e rovinare il servizio.

Roberta scivolò nel ruolo con la naturalezza di un corpo che ritorna al proprio elemento. Seduta sul bordo della scrivania, accavallò le gambe con un movimento che riveló una fugace promessa di ciò che c'era oltre lo spacco. Dax catturava ogni fotogramma di quella teatralità erotica, ma il suo sguardo tornava ossessivamente a certi dettagli Il modo in cui inclinava la testa quando si sentiva osservata, quella particolare geometria tra spalla e collo che risvegliava echi sepolti nella sua memoria muscolare.

Gli occhi di Roberta bucavano l’obiettivo, cercando quelli di Dax mentre slacciava la camicetta. Le dita che spostavano il reggiseno rivelavano i capezzoli con cui giocava per farli diventare turgidi. Capezzoli che avevano qualcosa di familiare. Ma mentre il cervello di Dax, oltre ad essere occupato a fare il lavoro per cui era pagato, cercava, nell’archivio della sua memoria, immagini da far combaciare con quello che stava guardando ora, Roberta fece comparire qualcosa di inaspettato. Era una catena con due clip, che con maliziosa lentezza fissò prima al capezzolo sinistro e poi a quello destro, offrendosi poi agli scatti di Dax, scatti che in questo momento sembravano quelli di una mitragliatrice impazzita.

Senza staccare le clip, si voltò, facendo lentamente risalire la gonna, offrendo il suo bellissimo lato b al fotografo, concludendo il tutto con uno studiato movimento che spostava lo slip alla brasiliana, rivelando una specie di gioiello a forma di cuore. Girò la testa cercando il viso, lo sguardo dell’uomo, cercando di capire quanto la provocazione di avere infilato un plug aveva colpito l’uomo.

Per un istante, la macchina fotografica divenne una barriera, una difesa. Entrambi sapevano che abbassarla avrebbe significato entrare in un territorio da cui sarebbe stato impossibile tornare.

Appoggiò il ginocchio alla scrivania, mentre la mano spostava completamente lo slip per poter giocare con la sua figa, allargare le labbra, offrirle alla vista di Dax e di Dago.  L’idea che stava facendo di tutto per eccitare due uomini contemporaneamente ebbe un effetto importante su di lei, facendola bagnare ulteriormente.

Le aveva concesso tutto il tempo per giocare sulla scrivania, mentre i vestiti lentamente cadevano, le dita che giocavano pesantemente con il proprio corpo. Aveva la netta sensazione che no era solo per le foto che si stava comportando in quel modo, era certo che aveva deciso di provocare lui e ci stava riuscendo.

"Che ne dici di passare a fare qualche foto sul letto? Hai qualche altro indumento?" disse Dax, abbassando finalmente la macchina fotografica. La sua cercava di essere professionale.

Roberta annuì, ritirandosi dietro il paravento. L'adrenalina le pulsava sotto la pelle mentre estraeva dalla borsa l'ultima arma di seduzione. Un body color borgogna, profondo come sangue ossidato, realizzato in un materiale che sembrava vivo al tatto. La stoffa elastica, con la consistenza di pelle liquida, era strategicamente tagliata per rivelare più che nascondere – un'architettura di aperture che esponeva i capezzoli e divideva il pube con una fessura centrale che iniziava appena sotto l'ombelico.

Completò l'insieme con autoreggenti a rete larga dello stesso colore vinoso, e scarpe con plateau e tacco esagerato, affilato come uno stiletto. Non erano semplici calzature, ma strumenti di tortura consensuale che ridisegnavano la geometria del corpo, forzando la colonna in quella curva che trasforma il bacino in un'offerta.

Si studiò nello specchio. La donna che vi abitava era uno spettro magnifico della Roberta quotidiana, la stessa anatomia ma abitata da un'intenzione diversa. Gli occhi resi più misteriosi e affamati dalla maschera. Si sentì stranamente commossa dalla propria trasformazione, come se stesse assistendo alla rivelazione di una verità sepolta dentro di lei da sempre.

Emerse dal camerino con un'andatura studiata. Ogni passo era una promessa, ogni oscillazione dei fianchi un manifesto di intenzioni. Il ticchettio dei tacchi sul pavimento era un meccanismo a orologeria che scandiva il tempo rimasto alla resa dell’uomo.

Dax rimase immobile al centro della stanza, paralizzato da quella visione. Il borgogna contro la sua pelle ambrata creava un contrasto ipnotico, come se il corpo stesse simultaneamente sanguinando e fiorendo. Qualcosa in quella figura attivò una memoria somatica che gli percorse la spina dorsale come una scossa elettrica.

Roberta scivolò sul materasso circolare con un movimento che sembrava sospendere le leggi ordinarie della fisica. La seta cremisi sotto quel corpo borgogna creava un'armonia cromatica che parlava di appetiti e abbandoni. Teneva gli occhi fissi su di lui e assieme a tutti i movimenti che faceva era palesemente un invito.

Quando lui iniziò a fotografarla, i suoi movimenti avevano perso la consueta professionalità. Le mani tradivano microscopici tremori, il respiro si era fatto irregolare. Si avvicinava troppo, poi indietreggiava bruscamente, come se temesse contaminazioni. L'obiettivo vagava sul corpo di Roberta senza la solita metodica esplorazione, ma con l'erraticità di una bussola vicino a un magnete.

"Girati," disse, la voce ridotta a una fibra tesa sul punto di spezzarsi. "mettiti a quattro zampe."

Lei ruotò con un movimento lento, inarcando la schiena. Il materiale borgogna si tese sulle natiche come una seconda pelle, riflettendo la luce in un mosaico di sfumature dal rubino al sangue vecchio.

Lui si avvicinò ancora, si inginocchiò sul bordo del letto. La macchina fotografica percorse lentamente la geografia di quella schiena, indugiando sulla curva che separava la colonna dai reni. Si fermò bruscamente.

"Quella costellazione," sussurrò, un'esalazione che conteneva simultaneamente stupore e conferma. "Quei tre nei sulla schiena, appena sopra il gluteo destro."

Il respiro di Roberta si arrestò come un orologio rotto. Quei tre puntini sulla sua pelle, disposti in un triangolo perfetto – invisibili a meno che non si conoscesse quel corpo nel dettaglio microscopico, a meno che non lo si fosse mappato centimetro per centimetro nella luce ambigua di un'alba dopo avere fatto l'amore.

La macchina fotografica scivolò dalle sue mani, atterrando sul materasso con un rumore sordo. Gli occhi di lui, ora fissi su quel segno rivelatore, brillavano di un'urgenza che trascendeva il desiderio. Le sue mani si mossero verso la bandana con la certezza di chi esegue un movimento inevitabile. La stoffa nera si separò dal suo viso, rivelando completamente l'uomo che Roberta aveva cercato negli angoli più remoti della memoria per due anni.

"Roberta?" chiese semplicemente. Una domanda retorica, il riconoscimento di qualcosa che aveva sempre saputo a livello inconscio.

La maschera di Roberta rimase al suo posto per un ultimo istante, un frammento finale di controllo. Poi, con un gesto simultaneamente di resa e conquista, se la sfilò, permettendo al suo vero viso di emergere come una luna da dietro le nuvole.

"Dago," rispose, la voce a malapena udibile, un suono che esisteva più come vibrazione che come parola.

I corpi si muovono uno verso l’altro. Si baciano affamati e assetati. Le mani di lui che cercano il suo corpo. Le mani di lei che cercano di strappare via la sua camicia, cercano di aprire i pantaloni.

Non è il momento di parlare, di parole se ne sono scritte e dette tante. È il tempo di fare, è il tempo dei corpi. La mano di Roberta trova finalmente il cazzo, duro, di Dago e mentre spalanca le gambe lo guida dentro di sé, dentro la sua figa che non desidera altro. Il gesto è suggellato da un gemito profondo che sfugge ad entrambi.

La prima spinta è quasi brutale, non per cattiveria ma per fame, desiderio. Un innesto violento di carne in carne che cancella in un istante i due anni di separazione. Lei lo accoglie con un'avidità selvaggia, le unghie che affondano nei suoi glutei per spingerlo ancora più dentro, come se ogni millimetro di distanza fosse una bestemmia insopportabile.

"Dio, quanto mi sei mancata," ansima lui contro il suo collo, il respiro caldissimo sulla pelle già rovente. Non rallenta, non le concede tregua. Il ritmo delle sue spinte è frenetico, disperato, un'urgenza animale che sembra voler risarcire ogni secondo perduto.

Lei risponde mordendogli la spalla, forte abbastanza da lasciare un segno. "Non fermarti," gli ordina, la voce rotta ma imperativa. "Non osare fermarti."

Il letto, quel letto professionale, parte del set fotografico, testimone di dozzine di pose studiate e di diverse avventure sessuali, ora geme sotto l'assalto di corpi che hanno dimenticato ogni artificio. La seta cremisi si macchia degli umori di Roberta, sempre più abbondanti ad ogni affondo. Il rumore osceno dei loro sessi che si incontrano riempie la stanza, quel suono liquido, volgare, sacro che nessuna macchina fotografica potrà mai catturare.

Dago si solleva, tendendo le braccia per guardarla. Vuole vederla mentre la scopa, vuole imprimere nei suoi circuiti cerebrali quest'immagine. Roberta sotto di lui, la bocca socchiusa in un'espressione di piacere quasi doloroso, gli occhi che lo fissano con una lucidità feroce. Due anni di fantasia non avevano nemmeno sfiorato la perfezione reale di quel volto trasfigurato dal piacere.

Lei nota il suo sguardo e sorride, un sorriso che non ha nulla di dolce, tutto di predatorio. "Ti piace quello che vedi?" chiede, contraendo deliberatamente i muscoli intorno al suo cazzo.

Un grugnito gli sfugge dalle labbra. "Sei ancora più bella di quanto ricordassi," ammette. "E più stretta. Cazzo, mi stai spremendo.".

La cerca con la bocca, prima baciandola, poi giocando sul suo collo, scendendo sui seni. L’appetito viene mangiando e violenta arriva la voglia di leccarla, la voglia del spore della sua fica, di farla godere prima di tutto in quel modo. Scende piano e quando deve fare scivolare fuori il cazzo da lei sente una piccola protesta. Una protesta contenuta dato che lei sa esattamente quello che sta per fare ricorda perfettamente cosa fosse in grado di farle provare con quella lingua. Allunga le mani e gliela apre, offre. Solo la lingua, nient’altro. La lecca premendogliela contro. Gioca con la punta contro la clitoride. La infila dentro.

"Sto per venire," lo avverte, non una richiesta di permesso ma un annuncio di inevitabilità.

Lui rallenta, un gesto crudele di controllo. "Non ancora," ordina. "Non fino a quando te lo dico io.” Lascia scivolare la lingua più giù, a stuzzicare l’altro suo buco, poi risale, la divora un altro po’ prima di risalire lungo il suo corpo. “Girati, mettiti a quattro zampe, come una brava cagna.” È sempre Dago ma sente anche che qualcosa è cambiato, in meglio, una sicurezza maggiore, una determinazione maggiore che non fa altro che renderla ancora più eccitata nell’ubbidirgli. Si gira, si mette a quattro zampe, abbassando la testa verso il materasso ed offrendogli il culo.

Quasi contemporaneamente sente la mano afferrarle i capelli e il cazzo riempirle fa figa. La mano tirando i capelli la obbliga a sollevare la testa. "Guardati," le ordina, indicando lo specchio davanti a loro. Lei obbedisce, incrociando il proprio sguardo nella superficie riflettente. Ciò che vede la sconvolge e l'eccita ulteriormente: una donna con il viso stravolto dal piacere, il trucco sbavato, i capelli selvaggi aggrovigliati nel pugno di lui, il corpo che ondeggia sotto ogni spinta brutale. Non è più la sofisticata manager americana, non è la cliente mascherata: è una creatura primordiale, ridotta all'essenza più pura del desiderio. Come se non bastasse lui le si sfila dalla figa e punta al suo culo. Scivola dentro lentamente, riempiendola diversamente, facendole provare quel mix di umiliazione, piacere e dolore che non provava da tempo.

"Questo è quello che sei veramente," sussurra lui al suo orecchio, senza mai smettere di muoversi. "Questo è quello che siamo insieme."

Senza mollare i capelli, come se stesse tenendola al guinzaglio, inizia a scoparla con forza, alternando culo e figa, cercando di portarla continuamente al limite prima di cambiare. “Ti prego … “. Lei inizia a mugolare. “Ti prego, fammi godere … lasciami godere … “

Lui insiste ancora un po’ con quella tortura, poi la ribalta, violentemente, la trascina sul bordo del letto e la prende come un animale prende la sua femmina. Anche lui è al limite. La scopa, con tutte le forze che gli sono rimaste, la scopa fino a farla godere ed esplodere con lei, simultaneamente in un orgasmo travolgente.

Per lunghi secondi, rimangono così, uniti, tremanti, incapaci di parlare. I loro corpi continuano a comunicare attraverso piccoli spasmi e contrazioni, un alfabeto carnale che nessuna lettera o email potrebbe mai replicare.

Poi, lentamente, lui si sfila da lei. Non le permette di crollare sul letto, ma la gira nuovamente, attirandola contro il suo petto. I loro battiti cardiaci si sincronizzano gradualmente, mentre i respiri tornano a ritmi normali.

"Sei tornata?" chiede infine. La voce, ancora ruvida dal piacere, rivela una vulnerabilità che il suo corpo non potrebbe mai mostrare.

Lei trova il suo sguardo nell'oscurità crescente dello studio. La risposta pesa sulla sua lingua come una promessa che non è ancora certa di poter mantenere. Due anni sono un abisso troppo vasto per essere colmato con una semplice parola.

Le sue dita si muovono lungo la mandibola di lui, memorizzando nuovamente quel territorio. Nel silenzio, i loro corpi continuano una conversazione che le parole corromperebbero. Lo bacia. Un bacio dolce e delicato, il primo. Il secondo già è diverso. Quello successivo chiede ancora di più mentre la mano scende verso il suo cazzo, lo impugna, accarezza, massaggia.

Senza smettere di baciarlo sale sopra di lui, lo guida di nuovo dentro di lei. Hanno due anni da recuperare.

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