La Fame - 1

  • Scritto da Nonono il 04/05/2020 - 19:22
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Gaia entrò ondeggiando nel maneggio. Era una giornata di un fine settimana primaverile: per lei, questo non significava riposo o divertimento, piuttosto lavoro. Lavoro magari soddisfacente, ma pagato non così bene – e spesso in ritardo. Comunque, meglio di niente: i soldi servivano e questo era quello che aveva trovato. In qualche modo, avrebbe dovuto pur pagare le sue spese extra come studentessa.

Tutto sommato, non era stata nemmeno una scelta malvagia: prendersi cura dei cavalli era piacevole, per quanto potessero essere un po’ stupidi. Si trattava in fondo di pulirne il manto, spazzolarne la criniera, nutrirli ed eventualmente condurli fuori dal proprio box se necessario.

Amanda, la sua capa, d’altra parte le aveva illustrato a suo tempo il modo corretto di eseguire le varie mansioni: non serviva particolare intelligenza, ma comunque era necessaria qualche attenzione.

Amanda era, a suo modo, intrigante: piuttosto alta per essere una ragazza, spalle grandi e muscoli guizzanti, risultato dei suoi anni di lavoro in quel maneggio. Aveva un’espressione dolce, anche se il viso, incorniciato da capelli castano scuro e portati corti, non era privo di qualche spigolosità, le quali la rendevano ancora più interessante.

 

Quel giorno, Gaia entrando nel maneggio era sola: raccogliendo in una coda i lunghi capelli cerulei, con un grugnito, spinse la porta principale del maneggio per aprirla – dannatamente pesante, come al solito. Al momento, i cavalli erano quattro.

Si diresse verso il fondo della stalla e aprì l’armadio degli attrezzi: figurarsi, quello che di cui aveva bisogno era in alto. Sollevandosi sulle punte, raccolse la spazzola di metallo e il pettine per iniziare la pulizia dei cavalli – in fondo, Amanda era piuttosto alta; oh, sicuramente non si preoccupava per chi aveva delle gambe troppo corte, ancorché nella media!

Era un compito abituale, ormai: gli animali la conoscevano e non erano disturbati dalla sua presenza. Meccanicamente, iniziò ad armeggiare con il loro mantello, premendo con forza la spazzola per togliere i peli in eccesso. Quell’attività le permetteva benissimo di vagheggiare i suoi ricordi; d’altro canto i pensieri che le frullavano nella testa dal primo mattino erano molti. Ripensava all’esperienza della sera prima: era stata ad una festa con un’amica. Niente di che, ma ad un certo punto, si erano ritrovate sole: leggermente brilla, le aveva accarezzato la guancia – il gesto era stato ricambiato e, in breve, tra risatine, si era trasformato in un bacio delicato, con la lingua a fior di labbra. L’esperienza era finita lì, ma nel frattempo Gaia valutava l’accaduto. Sicuramente gli uomini le piacevano; forse, anche le donne. Per questa giornata, Amanda aveva promesso che le avrebbe insegnato a cavalcare in maniera migliore, impartendole la postura corretta.

 

Meditando in questa maniera, non si rese nemmeno conto di aver finito anche l’ultimo cavallo. Andò a raccogliere del fieno per nutrirli. Il maneggio prevedeva anche delle attività con le scuole: a fianco del fieno era posizionata una scatola, colma di carote - sia bambini sia ragazzi si divertono a vedere un cavallo mangiare una carota dalle proprie mani. Gaia, per un momento, si fermò ad osservarle: arancioni e invitanti, con ancora il ciuffo verde attaccato. Non le contemplava tanto per le papille gustative, quando per la loro forma conica: recentemente, aveva scoperto assieme ad un suo ragazzo - se così lo si volesse chiamare – la sodomia: inizialmente scettica, si era lasciata poi convincere. Aveva scoperto sensazioni nuove – i muscoli che si contraggono, la prima penetrazione che duole e che scuote tutto il corpo.

Aveva già fatto un po’ di pratica, avrebbe benissimo potuto… Si guardò attorno: era sola. O meglio, c’erano i cavalli, ma che le risultasse, non avevano il dono della parola. Avrebbero potuto conservare gelosamente il suo segreto.

Con un risolino, scartò l’idea e si diresse verso le mangiatoie: posizionò il fieno e li osservò cibarsene. Pensava a quando sarebbe arrivata Amanda; chissà come le avrebbe insegnato – magari, le avrebbe appoggiato le mani sulla schiena, spingendola in avanti, oppure l’avrebbe tenuta per i fianchi ampi…

Inconsciamente, le sue labbra, piuttosto grandi, si socchiusero, mentre il suo indice corse a sfiorarle: le avevano detto più di una volta che aveva una bocca accogliente; persa nelle sue fantasie, accarezzò il collo del primo animale, intento a capo chino nella masticazione – un cavallo baio. Sentiva l’odore del fieno e della stalla e le sue dita, partendo dalle orecchie, raggiunsero l’attacco delle zampe anteriori, i cui muscoli erano scossi da qualche tremito. Toccare quel manto fino, le trasmise un formicolio, che si estese pulsando al resto del corpo; improvvisamente, rivalutò l’idea: si voltò verso la scatola delle carote e ne scelse una, valutata attentamente. Non troppo grande, non troppo piccola – di superficie leggermente irregolare, ma dritta: semplicemente perfetta.

 

In fondo, un tentativo non avrebbe fatto poi tanto male. Indossava vestiti larghi, comodi per lavorare: era facile indossarli, così come toglierli. Prese in mano l’ortaggio e l’osservò attentamente per qualche secondo. Si diresse verso il rubinetto, a cui solitamente era attaccata una canna per l’acqua e la lavò: goccioline ne ricoprivano la maggior parte, rendendo la superficie lucente.

Dopo qualche esitazione, schiuse le labbra, rivelando una bella fila di denti bianchi. Con l’acquolina in bocca, tirò fuori la lingua e l’appoggiò sulla punta: quando si toccarono, una il sapore leggermente amaro rese Gaia più audace. Ne percorse tutta la lunghezza, bagnandola con la sua saliva. Si ritrovò a fantasticare, ovviamente: se ciò che stringeva in mano, fosse stato vivo, fatto di carne percorsa da fremiti… Al pensiero, la sua mano corse verso la sua intimità: incontrò prima la peluria, per poi trovarsi ad accarezzare l’esterno delle sue labbra, che iniziavano ad inumidirsi, mentre le sue guance avvolgevano già quella vivanda, elevata al rango di oggetto di piacere.

 

Fosse venuta, forse, avrebbe abbandonato le sue intenzioni iniziali: il suo cuore batteva forte, spingendo il sangue verso il suo basso ventre. Non avrebbe voluto cambiare idea – la prospettiva di accogliere nel suo culo quell’oggetto l’attraeva troppo.

Negli ultimi attimi di lucidità, si spostò in un angolo della stalla, dietro ad un box, in modo che nessuno, entrando, avrebbe potuto vederla – almeno, non subito. Abbassò leggermente i pantaloni e le mutandine in un colpo solo, il cui elastico, che prima avvolgeva i suoi fianchi, finì coll’abbracciarne le cosce. Mentre un vento leggero sferzava la pelle del suo sedere ben tornito, la mano che prima stuzzicava la sua intimità, ormai completamente bagnata, si posizionò contro la sua rosellina premendo piano, con movimenti circolari, per prepararla alla penetrazione.

 

Piegandosi in avanti, appoggiò una guancia contro la parete di legno del box dietro cui si era nascosta, graffiandone leggermente la pelle. Guardò la sua carota: era coperta interamente di saliva densa, che gocciolava lentamente tra le dita. Sporse il sedere all’infuori; alla stessa maniera con cui quel ragazzo era stato dietro di lei con il suo membro turgido appoggiato tra le natiche, fece scorrere quel cono arancione lungo la sua fessura, sospirando di piacere. Direzionò la punta, trattenne il respiro e spinse.

Lentamente, quell’oggetto si fece strada dentro di lei, allargandola poco alla volta, vincendo la resistenza che il suo corpo opponeva. Leccandosi le labbra, con la lingua appena sporgente, gemette, fino a quando non fu dentro per metà. Rimase in quella posizione, con gli occhi semichiusi, la mente confusa dal piacere e dal lieve dolore che si procurava poco alla volta di suo pugno. Appena percepì che avrebbe potuto procedere oltre, spinse ancora, portando il suo culo ancora più indietro; la mano libera era appoggiata contro la parete e le dita la graffiavano. Mordendosi il labbro inferiore, portò indietro lo sguardo e valutò la sua opera: tra le sue natiche spuntava la vivanda arancione, alla quale mancava ancora un bel pezzo per entrare completamente.

 

Quando strinse i denti e iniziò a forzare la parte restante, trasalì al suono della familiare voce femminile che la chiamava dall’ingresso della stalla: “Gaia, sei qui?”.

La ragazza emise un gridolino soffocato: non l’aveva sentita arrivare. Di solito, Amanda annuncia la sua presenza muovendosi rumorosamente – ha un passo pesante, fischietta o mugugna costantemente. Quel giorno era stata silenziosa, oppure Gaia era troppo concentrata sul suo piacere. Così, a causa dell’inaspettata intrusione, la sua carota l’aveva penetrata completamente in un colpo solo, attraversando dolorosamente lo sfintere all’improvviso. Rimaneva fuori, penzolante, soltanto il ciuffo verde.

Rossa in viso, Gaia risollevò in fretta e furia i suoi pantaloni.
Cercando di dissimulare i suoi gemiti, emise una voce lamentosa: “Sì… Sono qui…”

Si risollevò in piedi, a fatica: imprecò a mezza voce, sentendo quell’oggetto estraneo muoversi all’interno del suo corpo, impacciando i suoi movimenti. Prese un bel respiro e con passo incerto fece capolino da quell’angolo buio in cui si era rintanata. “Sono qui, stavo… Sistemando gli attrezzi.”, riuscì a dire.

 

Amanda si avvicinò a passo spedito, parlando del più e del meno, amichevole e accogliente come suo solito: indossava una canottiera attillata, pantaloni corti. Faceva abbastanza caldo ed essendo sempre in movimento poteva permetterselo.

Gli occhi annebbiati di Gaia non riuscirono a guardarla in viso e si abbassarono verso il pavimento. Notando l’atteggiamento insolito, la proprietaria del maneggio interruppe le sue frasi a metà: “Va tutto bene?”

In qualche modo, Gaia spiegò che non si era sentita tanto bene, che aveva avuto un giramento di testa e che stava per cadere. Era una scusa arraffazzonata, espressa in maniera incerta, riprendendo il fiato che le mancava, ma sperava potesse funzionare: sicuramente le avrebbe evitato qualche imbarazzo.

 

Amanda la osservò: la sua dipendente era rossa in viso, con la fronte imperlata di sudore; le appoggiò una mano su una spalla, inclinando leggermente la testa, con la fronte corrucciata a dimostrare preoccupazione. Il semplice gesto turbò non poco la ragazza – coi cinque sensi all’erta e ricettivi, qualunque contatto fisico l’avrebbe spinta verso il settimo cielo e a maggior ragione l’avrebbe fatto il tocco di quelle mani. La donna si offrì immediatamente di riaccompagnarla a casa: era in macchina, non voleva sentire scuse. Mentre così diceva, notò i graffi sulla guancia della sua dipendente: “Tu guarda, ti sei anche graffiata”, mormorò affettuosamente. Delle striature rosse ricoprivano la pelle della ragazza, mentre la mano della donna le afferrava il mento, sollevandolo appena. A quel gesto, gli occhi verdi di Gaia si sbarrarono, aperti per l’eccitazione e una scarica di adrenalina le attraversò il corpo; riuscì a non cedere al desiderio, ma si abbandonò tra le braccia di colei che la stava esaminando. Lentamente, a piccoli passi, si fece trasportare in macchina.

 

Sdraiata sul sedile passeggero, confusa e ad un passo dall’orgasmo, iniziò il viaggio di ritorno verso la sua abitazione. Amanda aveva una vecchia panda rossa. Il motore tremava, facendo sussultare il corpo della ragazza, spingendola ancora di più verso la soglia oltre la quale non sarebbe più tornata indietro. Mentre la guidatrice parlava, cercando di tranquillizzarla, la ragazza respirava affannosamente: le vibrazioni dovute alla strada sconnessa la facevano sobbalzare – quel cono si muoveva dentro di lei, mandandola in estasi. Ad ogni buca, il suo culo veniva stimolato sempre di più e le sue pareti venivano esplorate in maniera inedita.

 

Trattenendo il respiro, mordendosi le labbra e strizzando gli occhi, la sua mano destra afferrò un gancio che sporgeva dalla portiera, mentre il sinistro afferrò il braccio della compagna, lo strinse e lo graffiò, quasi conficcandovi le unghie. In silenzio, ebbe un orgasmo potente: per qualche secondo non vide più nulla, i suoi muscoli si contrassero e il corpo si tese sul sedile come una corda, mentre scosse di piacere la attraversavano.

 

Amanda, confusa e sinceramente allarmata, fermò la macchina e osservò la ragazza abbandonare il corpo sul sedile, la cui guancia veniva lentamente segnata da una lacrima.

La donna seppe solo dire: “Cosa succede?”

Per un tempo che sembrò infinito – il tempo di prendere fiato - non ci fu risposta.

Finalmente, la ragazza sorrise e sospirò: “Io… Penso di stare un po’ meglio, grazie…”

Amanda appoggiò il palmo della mano sulla fronte sudata dell’altra. La esaminò da vicino e rise rincuorata: “Sicura? Sembra quasi tu abbia avuto un orgasmo.”

Mentre il veicolo riprendeva la strada, Gaia appoggiò delicatamente la mano sul suo proprio ventre: da sopra i vestiti, poteva percepire la forma della carota delinearsi sulla sua carne.

 

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