Il fischio di una marmotta lacera l’aria, due falchi che volano in cerchio da qualche minuto rispondono con i loro stridii lamentosi. Stringo gli occhi: nessun animale si muove tra le rocce e le frane, siamo troppo lontani: avrei dovuto portare un binocolo, ma siamo usciti di casa e saltati in macchina senza pensarci due volte. Vabbè, sarà per un’altra occasione.
Faccio un paio di passi indietro, i fili di erba secca mi sfiorano i polpacci nudi e il fiore di un cardo batte contro una gamba. Sollevo lo smartphone davanti agli occhi e compongo l’inquadratura: la cima del Monte Stirio si riflette sulle acque appena mosse del Laghetto dei Tre Saggi, baluginii balzano dalla cresta di un’onda all’altra.
Il telefono scatta la foto emettendo uno scrocchio. La controllo: il prato così giallo è un pugno in un occhio, ma una veloce modifica al computer lo renderà perfetto come immagine di mezzo nell’articolo sulla miniera di argento in fondo alla valle. Incredibile come non si trovino informazioni su questa escursione in Internet: ci penserò io a sopperire alla mancanza, così come ho fatto con altre. Questo articolo lo venderò in un attimo a qualche rivista o sito internet di escursionismo.
Spengo il telefono e lo metto nella tasca dei pantaloncini corti. Afferro lo scollo della maglietta e lo scuoto. Un soffio d’aria calda scende tra i miei seni sudati, ma non cambia nulla. È come respirare davanti ad un forno aperto, ma al posto del profumo della pizza grava il fetore che opprime la sala server al lavoro. Il mal di testa che mi assilla almeno da un’ora ha un picco che mi fa sollevare il labbro. E dicono che la natura sia la migliore medicina...
Il mio ragazzo è seduto su un macigno chiazzato di licheni gialli. Prende dallo zaino la borraccia, ne beve un paio di sorsi, emette un sospiro soddisfatto e la rimette a posto. Si appoggia con i gomiti alle ginocchia, ingobbendosi. Fissa l’orizzonte senza guardarlo.
«Lo sai perché si chiama il “Laghetto dei tre saggi”?»
Alberto muove la testa verso di me. Sugli occhiali scuri che ha tra i capelli corti guizza il riflesso del sole. Non si mette dritto. «Perché?»
Il ricordo della mia bisnonna che, la sera, mi faceva sedere sulle sue gambe e mi raccontava le leggende della valle in cui era nata tende le mie labbra in un accenno di sorriso. «Nel medioevo, o quel periodo… secoli fa, per capirci, venne scoperta una vena di argento in alta quota, e molti uomini che volevano migliorare la situazione delle loro famiglie vennero a lavorare nella miniera. Ma non era un lavoro facile…»
Il ragazzo si mette eretto con la schiena. «Grazie al piffero, il minatore non è un lavoro per tutti.» Lui è un programmatore, e anche se fa ore di palestra ogni settimana, e si vede nelle braccia e nelle gambe, non avrebbe la forza fisica, e di carattere, per spaccare pietre sottoterra. O forse sì?
«Le vittime erano molte, e si pensò di abbandonare la miniera.» È da qualche parte sotto quelle cime, in un luogo che, dalle foto che ho trovato, sembra uscito da un western o direttamente dalla superficie lunare. Solo il tempo per arrivarci a piedi o con i muli… «Ma visto che stava portando un minimo di ricchezza a gente che a stento mangiava una volta al giorno, quelli a valle decisero di chiedere alle tre persone più sagge nella zona di salire in montagna e chiedere agli spiriti e ai folletti di proteggere i minatori.»
Alberto si passa una mano sulla fronte madida di sudore. La maglietta rossa ha una macchia scura davanti. «E gli spiriti cos’hanno fatto? Hanno dato ai minatori i caschetti in mithril?»
Scaccio la battuta con un movimento della mano. «Non è quello che conta. La leggenda dice che le creature magiche avevano deciso di aiutare i minatori a patto che i tre saggi avessero vigilato sulle loro montagne, responsabili del comportamento di quelli del fondovalle nel caso fossero saliti in quota. Da allora, c’è stata una specie di tregua tra umani e creature magiche.»
Il mio ragazzo si alza in piedi e si sgranchisce la schiena. «Bella storia. È per questo che sono tre ore che stiamo facendo escursionismo? Vedere una miniera la cui sicurezza era stata assegnata agli gnomi e al Balrog? Ci sarà un cartello con scritto “Tu non puoi passare” attaccato alle assi all’ingresso.» Sospira. «In questo momento non mi dispiacerebbe se mi portassero un po’ di pan di via…»
Che stronzo… Sono anni che volevo scoprire i luoghi che facevano da sfondo alle storie che mi raccontava Mariellina, e solo perché non sono al livello dei suoi fantasy mi prende per il culo. Appoggio le mani ai fianchi. «Sì, ci tengo tanto.»
Lui si sfila gli occhiali da sole dai capelli e se li inforca. «Il cartello segnavia indica ancora un’ora e mezza per la nostra destinazione, ma ho idea che non ci arriveremo.»
«Io non sono stanca.» Qualcuno ha sostituito le mie gambe con pezzi di legno, e la schiena mi duole. La testa, poi…
«Nemmeno io, ma non è per quello…» Alza un braccio e indica l’orizzonte. Le cime delle montagne dall’altra parte della valle sono nell’ombra di nuvole nere che si muovono ad una velocità che non ho mai visto prima.
Sbuffo dal naso. Proprio oggi doveva piovere? «Facciamo in tempo a raggiungere la miniera? Non mi va di buttare via una mattinata…»
Alberto apre la bocca per parlare ma un fulmine dardeggia, unendo in un lampo di luce il cielo e un pilone dell’alta tensione che spezza il profilo della catena montuosa. La mia emicrania esplode alla vista dei lampi. Stringo i denti e le palpebre.
La bocca del mio ragazzo si distorce in una smorfia. «Credo sia meglio tornare alla macchina.» Il tuono brontola che non faremo in tempo e ci prenderemo una lavata. Se ancora ci andrà bene.
Mi lancio verso il mio zaino con un paio di balzi, afferro la borraccia e il sacchetto con le pesche e ce li getto dentro. Chiudo le fibbie e me lo carico in spalla. Non mi sono nemmeno ricordata di portarmi una mantella o il k-way… Altra voce della lista di cose lasciate a casa. «Potevi controllare il meteo, Alberto.»
Lui si carica a sua volta lo zaino. «Te l’avevo detto, Ilaria, che il cielo non prometteva nulla di buono. Ma quando ti metti in testa una cosa…»
***
Gli scocco un’occhiataccia. Prendo dalla tasca lo smartphone per scoprire se il cielo ci farà la grazia. In cima allo schermo, le quattro tacchette sono sostituite da un triangolo vuoto. Merda, niente rete…
Alberto si ferma, si guarda attorno con le mani sui fianchi. È rosso in viso, ha una goccia di sudore sulla punta del naso. Se la toglie con il dorso di una mano, davanti alla bocca aperta, avida di ossigeno. «Sei… sicura che è il sentiero che… che abbiamo preso nella salita?»
I muscoli delle gambe sono infiammati dalla corsa in discesa, qualcosa nella testa mi batte come un martello.
Il sentiero è una striscia di terra nuda in mezzo a ciuffi di erba schiaffeggiati dalle folate di vento in un tratto di montagna pianeggiante, identico a mille altri luoghi che ho percorso negli ultimi anni. Un forte dolore mi aggredisce gli intestini. Dovevo prendere la strada a sinistra, al bivio un chilometro fa? Che fine ha fatto il cartello segnavia? «Sì. Ma l’importante è arrivare a valle il prima possibile.»
Un lampo brilla un paio di volte a qualche chilometro da noi, il tuono ride alle mie parole. Solo un pollice di cielo è ancora libero dalle nuvole nere. Non ce la faremo ad arrivare alla macchina bagnati solo di sudore.
Il limite superiore del bosco di pini si profila a qualche chilometro da qui, i loro rami a formare delle tettoie sotto le quali salvarci dalla pioggia.
Forse.
«Andiamo.»
Pochi passi e il pascolo si abbassa in una breve discesa prima di passare nei pressi di un paio di edifici in pietra circondati da una palizzata. Oggetti in legno e ferro sono appoggiati alla rinfusa contro i muri. Una finestra è illuminata e le folate di vento schiaffeggiano e disperdono il fumo che esce dal camino.
Alberto si ferma accanto a me, si gratta una tempia. «Non ricordavo ci fosse una malga in esercizio.»
Durante la salita eravamo passati accanto a due ruderi con le pietre di muri rotolate nel prato e i tetti crollati. Al bivio dovevo prendere l’altra strada. «Chiediamo se ci fanno passare a tetto il temporale»
Il mio ragazzo si ferma, un sopracciglio alzato, le labbra piegate in quel suo sorrisetto ironico. «Sai che sembra l’inizio di un film splatter, vero?» Il tono è leggero, ma i suoi occhi scrutano la malga con diffidenza.
***
Le scarpe affondano nella fanghiglia attorno alla malga, la mota non vuole lasciare le suole. Il recinto è un groviglio disordinato di rami presi ad accettate e legati con corde sfilacciate, i muri sono di sasso, tenuti insieme da malta grigiastra e ragnatele che si scuotono nelle raffiche della tempesta. Lastre di pietra chiazzate di licheni gialli e verdi appoggiate a travi di legno spiovono sopra di noi. Il riparo perfetto per qualsiasi cosa il cielo abbia deciso di riversarci addosso.
Mi fermo, una folata di vento mi fa sbattere la maglietta. Le dita gelide e umide dell’aria afferrano i miei seni e mi fanno tremare. Indico ad Alberto il tetto.
Lui lo studia. «Cosa?»
«Non ci sono pannelli solari e parabole.»
Il lampo che illumina la valle ha per lui maggiore interesse. Solleva le spalle. «Chissene frega se non hanno la televisione. Guarderemo i fulmini: da sotto un tetto hanno un fascino particolare.»
Si avvicina alla porta, una serie di assi screpolate di legno nero su cui campeggiano delle grosse teste di chiodo piramidali arrugginite. Bussa: il suono sembra quello di quando si picchia il pugno su un castagno.
Non riesco a spiegarmi come possano vivere senza elettricità o una televisione. Come le passano le sere? Leggendo? Giocando a Monopoli? Raccontandosi storie di fantasmi?
Al muro è appoggiata una carriola in legno che dà l’impressione che possa cadere a pezzi da un momento all’altro, con la ruota che vibra ogni volta che si alza il vento in un cigolio che sembra un’implorazione alla pietà, e accanto una grossa conca di rame con un buco abbastanza grande da infilarci un pugno. Poco oltre, a terra sotto una finestra, c’è una falce con il manico in legno e la lama storta.
Ma dove cazzo siamo finiti? Al bivio non ho sbagliato strada, ho sbagliato secolo.
I vetri della finestra sono piccoli e luridi, e l’interno della malga è solo un alone arancione con… mi si blocca il fiato… un’ombra si stacca dalle altre e si muove verso la porta! Un brivido mi attraversa la schiena e azzanna gli intestini. Le gambe perdono ogni stanchezza e sono cariche come mai lo sono state.
Afferro la maglietta bagnata di sudore di Alberto. Lui ha la mano alzata per bussare di nuovo. Volta la testa verso di me.
Ho il cuore in gola. «Andiamocene…» sussurro.
Il vento sibila, qualche goccia di pioggia mi punge il viso come aghi gelidi.
Lui scuote la testa. «Sei impazzita? Sta per diluviare.»
Il cuore mi batte nelle orecchie, tutto il sangue affluisce alle gambe. Devo correre, correre lontano da qui, anche sotto la pioggia. Anche sotto i fulmini. «Ti prego, andiamo via!»
Alberto mi scocca un’occhiataccia e bussa. Un colpo, due, tr—
La porta si spalanca con un cigolio, una bestemmia silenziosa e uno strattone la trascinano con una punta in un solco nel pavimento. Balza fuori un ors— un vecchio alto quanto la porta. Indossa un abito lercio, consunto e rattoppato. Ci fissa. La punta della barba bianca all’altezza dell’ombelico si scuote nelle folate d’aria e un cappello a cono verde e macchie gli pende da una parte. La fascia di volto visibile è rossa e screpolata per la continua esposizione alla luce del sole di montagna e due occhi azzurri slavati ci puntano circondati da rughe profonde. Una zaffata di sporco, bestiame e latte cotto per ore tracima dalla porta e mi strizza lo stomaco.
Il vecchio fa un cenno verso di noi con il mento, come a scacciarci. «Cosa volete?» I denti sono gialli, affilati come lame, il fiato è un pugno nello stomaco.
Alberto è immobile, come gli erbivori quando si trovano davanti un predatore. La sua mano si stringe sulla mia. Apre la bocca ma è come se avesse dimenticato come si parla. «Noi… noi vorremmo chiederle se…»
Gli tiro la mano. Un lampo si scarica su una cima, dietro a una cortina di pioggia. Una goccia corre lungo la colonna vertebrale, ma non è sudore né pioggia. Andiamocene, ti prego…
Il mio ragazzo si spinge di qualche centimetro indietro con il busto. «No… niente…» Fa mezzo passo indietro. «Volevamo sapere se questo… questo sentiero arriva a valle.»
Il vecchio si protende fuori quanto basta per vedere il cielo ardesia. «Non ci arrivate, a valle.» La sua voce sembra quella delle campane che suonano per richiamare ai funerali. «È meglio se restate qui.»
La mano di Alberto mi stringe forte quasi quanto la mia morsa. «No, meglio se…»
Non aggiunge altro: si volta e si allontana dalla porta irrigidito. Lancio un’ultima occhiata al vecchio; nella baita, un altro anziano è seduto accanto al camino nero di fuliggine, illuminato dalle fiamme di un fuoco fumoso in cui sta gettando un ciocco di legno. Accenno una smorfia di saluto al vecchio e raggiungo Alberto con un paio di lunghi passi. Il fango sotto le suole mi fa slittare.
Mi metto davanti ad Alberto, come se possa farmi da scudo dallo sguardo di quel gigante con la barba e la puzza di capra.
Un fulmine lampeggia dall’altra parte della valle e una folata di vento gelida scuote le punte dei larici. La porta cigola alle mie spalle e sbatte.
Tre ore sotto l’acqua e i fulmini mi sembrano più sicure di entrare in quella baita…
La pioggia cade a secchiate. Mi soffoca come un’onda, impregna i miei abiti, mi gela, mi abbatte. Schizza da sotto le mie scarpe, mi inzacchera le gambe. Il sasso che affiora è scivoloso, slitto, una saetta di dolore esplode da una caviglia. Resto in piedi per miracolo.
***
Alberto è davanti a me, corre a perdifiato, ad ogni balzo barcolla nel fango del sentiero. Indica avanti. «Arriviamo laggiù!»
Il pascolo alla mia destra è un prato in pendenza, il burrone alla mia sinistra cade nella nebbia senza fine. C’è un pino solitario in mezzo al nulla, come ad aspettarci.
Un granello bianco colpisce un masso, esplode in schegge di ghiaccio. Un altro cade più avanti in una pozzanghera. Grandine, merda!
«Qui sotto, presto!» Alberto solleva il ramo del pino, dagli aghi cadono goccioloni di acqua. Si porta un braccio sopra la testa per proteggersela.
Inciampo su un sasso al lato del sentiero, finisco sulle mani, una pigna rimane sotto un mio palmo, un paio di scaglie mi azzannano la pelle. Gattono sugli aghi di pino asciutti sotto il ramo. L’odore della resina mi riempie i polmoni in debito di ossigeno. Mi giro e mi getto a sedere a terra. Respiro a grosse boccate, sono accaldata sebbene sia stata sotto la pioggia per nemmeno cinque minuti e l’aria portata dal vento sembri uscita da una cella frigorifera.
Non abbiamo fatto in tempo ad allontanarci dalla baita che uno scroscio di pioggia ci è crollato addosso, dando inizio al temporale.
Alberto butta dentro il suo zaino e mi raggiunge. Si siede accanto a me, le maniche della maglietta rossa che gocciolano, i capelli fradici. Ansima.
La pioggia diminuisce di intensità, granelli di ghiaccio la sostituiscono. Le montagne dall’altra parte sono state inghiottite da coltri di pioggia e grandine, il mondo è una gelida sfera di colori smorti circondata da un muro grigio sferzata dal vento.
Sembra di essere delle formiche contro le quali qualcuno scaglia manciate di sale grosso.
Il mio ragazzo si controlla un braccio: un chicco di grandine l’ha colpito e una goccia di sangue esce dal taglio. Poteva andarci peggio, se fossimo rimasti un minuto in più senza un riparo.
Se fossimo entrati nella baita…
Deglutisco, sono sotto un temporale ma non ho saliva in bocca. È solo colpa mia se non siamo rimasti alla baita, se siamo andati a prendere pioggia e grandine in mezzo ai pascoli invece di accettare il riparo che ci ha offerto il…
I muscoli si tendono al ricordo del malgaro, della sua puzza, di… di qualcosa di oscuro che non riesco a riconoscere.
Forse… forse è meglio restare qui.
Mi sfilo lo zaino e lo apro. «Aspetta, Alberto…» Non ho portato con me il kit di pronto soccorso, questa volta. Come abbiamo fatto a organizzarci così male per questa escursione? Frugo tra le cose che ho dimenticato di togliere dopo il giro al lago della settimana scorsa e prendo una bandana, quella che mi era stata data ad una qualche gara di corsa campestre. Stringo le labbra: non è un cerotto sterile, ma dovremo arrangiarci con della medicina da campo.
Mi metto in ginocchio, gli aghi del ramo si infilano tra i miei capelli. Spero non ci siano insetti nascosti. Soprattutto quelli con troppe zampe…
Passo la bandana sotto il braccio di Alberto.
Lui la osserva. «Non ce n’è bisogno, Ilaria.»
Il fiato mi entra a tratti, ogni espirazione rischia di essere l’inizio di un pianto. «Invece sì.» Faccio un nodo, stringo quanto basta per tenere su il fazzoletto ma senza far male ad Alberto.
«Grazie, amore.» Il mio ragazzo si appoggia con la schiena al tronco del pino.
Mi stringo a lui. I brividi mi scuotono la schiena, gli occhi mi bruciano come quando sta arrivando la febbre, ma so – spero – che non è febbre. Devo cambiarmi, ma dove? È come essere sotto una doccia.
I chicchi di grandine s’infrangono sulle rocce, rimbalzano come proiettili. Schizzi di acqua gelida mi colpiscono il viso. Appoggio il capo sulla spalla umida di Alberto, l’odore acre del suo sudore copre il profumo di resina, ma il calore del suo corpo combatte l’ululare del vento.
Lui mi accarezza i capelli, mi sfila un ago rimasto in una ciocca. Sospira, il suo sguardo perso nella nebbia che sta salendo. Penserà che avremmo fatto meglio ad accettare l’offerta di restare nella baita?
Penserà che è colpa mia se ce ne siamo andati e adesso siamo sotto il misero riparo di un alberello mentre il cielo ci crolla in testa?
Stritolo il suo braccio e avvicino i piedi al sedere per non lasciare le scarpe sotto l’acqua che gocciola dal pino.
La grandinata aumenta, sembra sparata con le mitragliatrici. Essere all’aperto sarebbe un suicidio o quasi. I rami si scuotono nelle folate e fanno cadere su di noi goccioloni gelati. Uno schiocco sopra di noi mi fa sollevare la testa, ma è tutta una coltre verde impenetrabile alla vista. Il pino reggerà… vero?
Un lampo illumina la valle, il tuono ha lo stesso suono di centinaia di tubi di ferro che cadono su un pavimento, ma mille volte più forte.
Sposto lo sguardo verso Alberto, lui mi guarda di sottecchi e continua ad accarezzarmi i capelli. Lo stringo più forte. Perché l’ho fatto finire in questo casino? Solo perché volevo vedere una miniera di cui mi raccontava la mia bisnonna? I tre saggi governavano sugli uomini durante la loro presenza nel regno delle creature magiche, e quando chiedevo come punissero, Mariellina si zittiva, e mi guardava. Nel suo sguardo leggevo, anche a quattro anni, che era meglio non indagare sulle pene che affliggevano a chi contravveniva alle regole. Altroché i fantasy che piacciono ad Alberto, questo era più un racconto dell’orrore…
La grandine diminuisce, la pioggia prende il suo posto. Il mio ragazzo si sporge fuori dal pino. «Sembra stia diminuendo di intensità.»
«Pensi che non grandinerà più?» I fili d’erba del pascolo spuntano da un tappeto di chicchi di ghiaccio. Un ramo del pino si è spezzato e pende dietro di noi. Nelle pozzanghere del sentiero sembrano congelate come in inverno. Non basterebbe un ombrello per proteggersi da una mitragliata simile…
Alberto torna sotto il tetto verde. «Non lo so… potrebbe essere solo una pausa momentanea.»
Oltre le sue spalle, il bosco in cui confidavamo di trovare rifugio durante la discesa sembra essersi allontanato rispetto a prima, nulla se non pascoli dove rischiare di prendersi un altro bombardamento di ghiaccio per chilometri. E non so nemmeno dove arrivi davvero il sentiero: magari giunge a valle, davanti ad un bar con della cioccolata fumante… magari si perde in una radura che nessuno visita da mezzo secolo.
Alle mie, di spalle, a meno di cinque minuti, sorge la malga, con l’inquietante montanaro, il suo compare, la puzza di stalla. Il fuoco fumoso.
Un vero tetto di ardesia.
Il calore per asciugarsi.
Mi volto verso Alberto, il suo viso lascia trasparire il dubbio su cosa fare. Se non l’avessi trascinato con me, in questa stupida avventura per onorare le storielle che mi raccontava Mariellina, saremmo a casa, seduti sul divano, a rimpiangere internet che non funziona e la tv che non prende. Sopprimo uno scoppio di risa: non mi lamenterò più di nulla, finché sarò all’asciutto.
Afferro lo zaino e mi trascino fuori dalla protezione del pino. Molti rami sono in una posizione innaturale, vittime della potenza della grandine. Non reggerà un altro giro di tempesta, non voglio che ci troveremo qui sotto quando tutto crollerà. Un paio di flash mi accecano. Il tuono brontola nelle mie ossa. «Andiamo, Alberto. Chiediamo a quelli della malga di farci passare la notte da loro.»
Lui si appoggia su un gomito e mi guarda da sotto la pianta. «Sei sicura?»
Mi si stringe lo stomaco all’idea di tornare lì, ma il pino è la versione vegetale di un edificio usato come bersaglio dall’artiglieria. «Sì.»
***
Il fango davanti alla baita è diventato un banco di sabbie mobili, mi afferra le scarpe da ginnastica, come a volermele sfilare pur di impedirmi di arrivare alla porta dalle assi annerite. La pioggia solleva schizzi nelle pozzanghere e scola dal tetto di lastre di pietra, quasi quanta ne gocciola dai miei capelli.
Le finestre sono ancora illuminate da un lucore, un’ombra si muove dietro di esse. Lancio un’occhiata ad Alberto dietro di me, bagnato dalla pioggia. La bandana che gli avevo messo al braccio non c’è più, ma la ferita ha smesso di sanguinare.
Lui ricambia il mio sguardo. I suoi occhi saltano verso la baita, ma non si trattengono che per un battito di ciglia, torna a puntarli su di me.
Sono io che cerco coraggio in lui, o è lui che cerca coraggio in me?
Un taglio di luce lampeggia un paio di volte da dove proveniamo. Mi balza il cuore in gola al pensiero che possa aver colpito il nostro povero pino. Il tuono ha la risata sarcastica del cattivo dei film.
«Cosa volete?»
Balzo alla voce del vecchio alle mie spalle. Mi volto, Alberto ha smesso di respirare.
Il montanaro è sulla porta, il ruggito del fulmine deve aver coperto il suono dell’apertura della porta. Il fetore che esce dalla baita e si esala dal vecchio è fisico non meno dell’acqua che mi affligge.
Un brivido corre lungo la mia schiena. Ritraggo la testa tra le spalle.
Il mio ragazzo ha tra le dita il colletto della maglietta, sembra trattenersi a stento dal portarla sul naso.
Mi schiarisco la voce, più a richiamare all’ordine Alberto. «Abbiamo… abbiamo bisogno di aiuto.»
Lo sguardo del montanaro scivola sul mio corpo, sulle mie scarpe da tennis lorde di fango, le mie gambe nude sporche di erba per la scivolata di pochi minuti fa, i miei pantaloncini e la maglietta che grondano sudore e acqua. I suoi occhi slavati si stringono appena, le rughe si avvallano un po’: non devo sembrargli molto più pulita di lui, con l’aggravante che lui è lercio per il lavoro, non per il tentativo di sfuggire alla noia del fine settimana.
«Possiamo… possiamo lasciare le scarpe qui per non sporcare…» La mia voce è un pigolio, la pioggia scende sotto i vestiti pesanti quanto la mia vergogna, bagnati come la mia gola è secca. Alberto ha l’espressione di un bambino di quattro anni che sta aspettando una ramanzina e una punizione.
Lo sguardo del montanaro sembra inciso nella roccia che compone i muri della baita, è imperscrutabile. Resta immobile davanti a noi, come a prendere il posto della porta per impedirci di entrare, solo la barba si muove nelle folate di vento.
Una voce raschia le parole. «Falli entrare.» L’altro vecchio è accanto ad un fuoco che sembra più un braciere. Con un pezzo di legno lo stuzzica come se stesse controllando se un animale riverso su un fianco è morto o reagisce al fastidio. «Esce il caldo.»
Il primo vecchio mugugna qualcosa, fa un passo indietro e libera la luce della porta.
Una mano mi stringe il petto, un’altra la vescica. La porta è l’entrata in una fauce oscura senza denti. Le gambe non si muovono, le scarpe non si sollevano dalla fanghiglia.
Un fulmine mi acceca, il tuono mi assorda. Un fulmine potrebbe essere una morte più veloce e indolore del—
La mano di Alberto si appoggia sulla mia spalla. È gelida. Tossisce. Mi sospinge. «Ilaria…»
Il piede si stacca dal terreno con un risucchio, lo appoggio sulla soglia della porta, spingo con l’altra gamba: dalla tempesta sono nella baita. Il fetore di animali, sterco, sporcizia, polvere aggredisce il mio naso, si accumula nello stomaco come un pasto non digerito. Il fumo appesantisce l’aria al punto tale che è come respirare qualcosa di solido. La luce rossa che sfugge dalle braci arde sulle superfici di un tavolo in legno e qualche sgabello, sfiora una credenza fatta con grossolane assi di legno. Una tronco scortecciato alla meglio puntella il tetto, una macchia di umido brilla nel riflettere le braci, si allunga, una goccia si stacca e si tuffa in un secchio di metallo. Plin. I muri sono neri dalla fuliggine, ragnatele pesanti pendono come amache sopra tre lett— Un terzo vecchio si alza da uno di questi. È vestito come quello sulla porta. Il suo sguardo muto si punta su di noi.
Alberto è accanto a me, i suoi occhi scivolano nei pochi particolari che emergono dalle tenebre della baita. Tortura le dita di una mano con l’altra. Una goccia di pioggia si accumula sulla punta del suo naso, ad un fiato si stacca e colpisce la pozza che stiamo formando sul pavimento di piattoni sconnessi.
Il metallo dei cardini agonizza, la porta sfrega sul pavimento e sbatte nel suo telaio. Il vecchio alle nostre spalle afferra un pezzo di ferro rosso dalla ruggine a forma di “L” e spinge la punta nel foro scavato in un sasso del muro. La baita crolla nel buio. In quel buio in cui si aggirano le creature deformi che scorgevo nella mia cameretta a tre anni. Mi stringo le braccia al petto, i vestiti sono gelidi.
Plin.
Il vecchio del camino si alza in piedi. Il suo volto è ridotto a linee rosse e ombre, solo i suoi occhi brillano. Allunga un braccio, le sue dita sono serpi che si contorcono. «Non restate lì in piedi.» Tossisce, gocce di sputo luccicano nel lucore del fuoco morente. «Spogliatevi, o vi ammalerete.»
Sollevo le spalle e annodo le gambe. Il vecchio della porta non si è mosso, quello del letto è rimasto in piedi. Nessuno dei tre emette una sillaba, solo il ticchettio della tempesta contro il tetto e l’ululare del vento che entra dagli spiragli della porta mi assicura che non sono sorda. Spogliarmi? Davanti a loro, davanti al buio? Vorrei mettermi un’armatura, piuttosto.
Alberto annuisce. «Sì, siamo da strizzare…» La sua voce ha perso il tono allegro che amo di lui. È come se il suo spirito fosse stato portato via dalla pioggia, o uscito dalla ferita che la grandine gli ha causato. Si sfila lo zaino, lo appoggia ad una delle gambe del tavolo sgangherato e si prende il fondo della maglietta.
Mi guarda. Un paio di colpi di tosse scuotono il suo petto. «Ilaria, toglili, ti prego,» sussurra.
Plin.
I tre vecchi restano immobili, sembrano statue pronte a scattare all’improvviso appena visibili nella notte.
La pioggia scivola ancora lungo le mie braccia, gocciola dalle dita. Sono bagnate anche le calze nelle scarpe. Respiro fino a riempirmi i polmoni, qualcosa in fondo sembra pronto a esplodere in un colpo di tosse. Meglio spogliarsi.
I vecchi sono ancora fermi.
Non voglio prendermi la polmonite.
Aspettano solo che io sia nuda.
Pongo a terra lo zaino che cade disteso nello spazio nero tra due piattoni. Il posto ideale dove i topi defecano nella polvere. Trattengo una smorfia.
Mi tolgo la maglietta, sfilo le scarpe e le calze, mi abbasso i pantaloncini. Ho almeno un paio di chili di acqua in mano, trattenuta dal tessuto dei miei vestiti. Alberto è in intimo come me, ha appoggiato i suoi abiti sul suo zaino.
Il vecchio del camino fa un passo avanti, allunga le mani verso di me. Il suo tanfo di stalla mi aggredisce.
«Appendiamo i vestiti, così si asciugano.» Me li prende di mano e torna accanto al fuoco comatoso. Una cordicella è annodata ad un chiodo infisso nella cappa del camino per un capo e l’altro è legato al tronco: il vecchio ci getta sopra la mia maglietta.
Qualcosa colpisce il tetto. Sollevo lo sguardo, attratta dal rumore. Dai longheroni di legno pendono rami di arbusti secchi che non so riconoscere, falcetti appesi a chiodi luccicano alla fioca luce delle braci, accanto ci sono un paio di salami grigi coperti di ragnatele che sembrano lì da quando è stata costruita la baita. Ti prego, fa che non ci offrano da mangiare…
Il suono si ripete. Di nuovo. Ancora. È una mitragliata. La grandine è tornata. Più forte di prima. Il nostro pino non resisterà, se non è già stato distrutto dal fulmine di prima…
«Appena in tempo…» Alberto abbassa lo sguardo dal soffitto. Ha in mano i suoi vestiti, il vecchio del camino si protende per prenderli. Una pozza si sta formando sotto gli abiti.
Una voce flebile, appena udibile sotto il tamburellare impazzito del tetto. «Toglietevi anche le mutande.» Il vecchio accanto al letto ha un braccio sul petto, l’altra mano trema verso di noi. Ha gli occhi sbarrati, come se non vedesse bene, o voglia scorgere le nostre anime.
Una smorfia si disegna sul viso del mio ragazzo, io mi ritrovo con una mano sul reggiseno e una sulle mutandine. Sono fradice, anche più dei vestiti, mi stanno ghiacciando la pelle, ma non ho intenzione di restare nuda davanti a questi tre. E in mezzo a questo lerciume.
Scuoto la testa. «No, va bene così…»
Gli slip bianchi di Alberto lasciano rigagnoli lungo le sue gambe. Questa volta non mi contraddice.
La voce cavernosa del vecchio della porta mi colpisce come una bastonata. «Non ci dovevate venire quassù con il brutto tempo che arrivava.»
L’anziano del letto si incammina verso la credenza. La apre, dentro è il buio più pesto. «Dici che non hanno imparato che si deve rispettare la montagna…»
Di cosa stanno parlando? Cosa credono di essere? I guardiani della… Il fiato mi si blocca nei polmoni, l’odore di fetido resta aggrappato al mio olfatto. Non posso essere i saggi, cosa sto pensando?
«Non hanno imparato un cazzo.» Il brontolio del tuono mi causa meno agitazione della voce del vecchio della porta.
Quello del letto estrae le mani dal buio del mobile sbilenco e due scodelle di legno compaiono tra le dita. «Impareranno. Sono giovani.» Indica il tavolo accanto a noi. «Sedetevi, dovete avere fame.»
Il mio stomaco è chiuso, collassato. Le ragnatele sopra i letti dondolano ad una corrente d’aria che ulula dalla porta. Non mi permetto di respirare con la bocca, qui dentro, davvero pensa che voglia mangiare qualcosa?
Il vecchio delle braci finisce di appendere i nostri abiti. Gocciolano quanto la pioggia all’esterno. Si asciuga le mani sulla maglia di un colore che ricorda il muschio. Muschio malato. «Sì, abbiamo qualcosa per voi.»
Intercetto lo sguardo di Alberto. Posso leggere nei suoi occhi i miei stessi pensieri. Sarebbe stato meglio correre fino al bosco e prendere anche una sventagliata di grandine che trovarci qui.
L’anziano appoggia le scodelle di legno sul tavolo coperto da una cerata a quadretti rosso smorto e bianco lercio. «Sedetevi. Sedetevi alla panca.»
Alberto solleva le sopracciglia, un angolo della sua bocca è abbassato. Ormai riconosco quando è disgustato, e in questo momento ne trattiene una smorfia. Nemmeno lui mangerà nu—
Il vecchio della porta è accanto al tavolo. «Sedetevi!» La voce è troppo grossa per stare nella baita, la riempie tutta. Sul tetto la grandine termina di ticchettare.
Il mio ragazzo si siede sulla panca e si trascina all’altra estremità. Il legno cigola, manca solo che si spezzi.
Lo sguardo del vecchio mi stringe il petto. Mi siedo sull’asse e metto le gambe nel buio sotto il tavolo. Non ci sono ragnatele, non mi sfiorano la pelle, ma può esserci qualsiasi mostro acquattato. Un brivido mi increspa la pelle della schiena. Appoggio i polsi sulla tovaglia di plastica. È attaccaticcia, macchie e particelle di cenere la costellano. Strappi e squarci mostrano il legno non lavorato del tavolo. Non la devono aver lavata da quando l’hanno comprata, e di certo non l’hanno pagata in euro…
L’anziano del camino arriva con una brocca di ferro ammaccata a tal punto che sembra essere stata presa a bastonate o gettata da una dozzina di rampe di scale. «Bevete un po’ di latte, vi fa bene.» Un liquido bianco troppo denso, simile a panna, scende nelle due ciotole. Quante malattie ci saranno in quel latte?
Alberto allunga le mani e prende la sua scodella. Il latte non manca mai nella sua colazione, ma non l’ho mai visto tentennare tanto. La solleva fino alle labbra e si ferma.
Il vecchio della porta appoggia la mano sul tavolo, il braccio muscoloso è coperto da peli neri grossi quanto le vibrisse di un gatto. Ti prego, fa che non mi tocchi…
Alzo la ciotola e l’avvicino alla bocca. É troppo buio per vederci dentro qualcosa che galleggia. Apro le labbra e mando già. Ha la densità del ketchup e un sapore nauseante, forte. Lo stomaco mi si strizza, non tratterrò a lungo… Un'unica serie di sorsi, perché se mi fermo a metà non avrò il coraggio di riprendere a bere questo schifo.
Appoggio la ciotola sul tavolo, un rigurgito mi sale fino alla bocca. Metto il dorso di una mano sulla bocca come a nascondere un ruttino e rimando giù. Non è il caso di vomitare davanti a…
Mi trattengo dal cadere in avanti, sbatto gli occhi e scuoto la testa. La baita inizia a muoversi verso… coso… la mano che non si usa per scrivere. O è l’altra che…
Una nebbiolina riempie la baita, i suoni sono attenuati.
Mi volto verso Alberto. «Cosa sta… cosa…»
Lui ha la bocca aperta, sembra soffocare. Si alza in piedi. «Che cazzo ci avete da—»
Il vecchio accanto a lui lo afferra, un braccio sul collo, l’altro sulla pancia. Il mio ragazzo strabuzza gli occhi, si divincola, ma la presa non cede.
Uno degli anziani mi si avvicina, puzza come un animale in putrefazione. Mi mette una mano sotto un’ascella e mi solleva come se pesassi mezzo chilo. «Cosa stai… stai…» Il tavolo mi balza in faccia, la mia guancia e le mie labbra impattano contro la tovaglia lercia. Sembra carta moschicida.
«Lasciatela, bastardi! Cosa state facendo?» La voce di Alberto arriva da un altro pianeta anche se ondeggia davanti a me. Sia lui che la voce.
L’anziano gli tappa la bocca con la mano.
Il vecchio del camino prende le scodelle e le sposta su una sedia con lo schienale rotto. «Si dimena parecchio, il ragazzo.»
«Non era abbastanza, la droga, per lui.» L’altro vecchio mi prende l’elastico delle mutandine e me le abbassa.
Oh, cazzo… Devo muovere le mani, devo lottare per… Le dita… le dita sono sempre state lì?.. tremano appena, è come se avessero tagliato la linea che controlla i miei muscoli. Un gemito sfugge dalle mie labbra.
Il vecchio del camino torna davanti a me, ha fuori dai pantaloni un cazzo in tiro grosso come un polso. La cappella è fuori dalla pelle, rossa come le braci. Una sua mano mi afferra i capelli sopra la fronte e mi spinge indietro la testa, le dita dell’altra mano s’infilano tra le mie labbra e i denti e aprono la mia bocca.
Il cuore mi batte nelle orecchie. Gli occhi mi bruciano ma le lacrime non si formano. Oddio, voglio morire…
Alberto grida a pieni polmoni, la mano viene tolta dalla sua bocca. «Lasciatela, pezzi di merda! Lasciatela stare!»
Il bastardo alle sue spalle gli blocca la testa con la mano. «Guarda cosa si merita chi non rispetta la montagna!» Alberto sembra il tipo in quel film quando gli fanno il trattamento Ludovico.
Un dito scivola tra le mie cosce, s’insinua tra le grandi labbra della mia figa e… il fiato si blocca nei miei polmoni… non è un dito, è troppo grosso. Il vecchio mi sta penetrando, la sua cappella entra dentro di me, afferra le mie anche e spinge fino a riempire la mia vagina.
«Come sei calda, Ilaria… proprio una puttanella come piace a me.»
Inizia a muoversi dentro di me, ogni colpo mi spinge avanti sul tavolo che cigola. La sua cappella apre le pareti del mio sesso, si ritrae, si porta via un pezzo della mia anima.
La punta del cazzo dell’altro passa sul mio naso, un fetore micidiale mi soffoca, scivola tra le mie labbra ed entra nella mia bocca. Struscia sulla mia lingua, lascia un sapore che solo un topo annegato nel liquame di una fogna potrebbe eguagliare. Lo stomaco mi si contrae, ma il latte maledetto resta al suo posto. Il pelo sull’inguine mi pizzica il viso.
Alberto è bianco in viso, ha gli occhi sbarrati. Non fiata nemmeno. Il vecchio dietro di lui mi fissa con cupidigia, aspetta il suo turno per scoparmi.
Perché non posso svenire? O vomitare, disgustarli, farmi gettare anche di fuori, sotto la pioggia e i fulmini, perché devo stare qui?
Uno schizzo caldo riempie la mia figa. Il cazzo resta dentro, in profondità. Il vecchio stronzo esala un sospiro. «Brava, Ilaria, mi piace quando mi fai godere.»
Quello davanti mi afferra i capelli e mi tiene ferma la testa, spinge la cappella fino in gola e si libera. Quattro schizzi di sborra mi colano nell’esofago. Mi libera la bocca e tossico, gocce biancastre si spandono sulla tovaglia davanti a me.
Il vecchio davanti a me ha il cazzo umido della mia saliva, una goccia bianca pende pigra dal taglio. Mi dà un paio di pacche sulla testa come se fossi un cane. «Ben fatto, puttanella, ben fatto.»
Un nuovo giramento di testa mi colpisce, la baita si solleva da una parte. Le palpebre si fanno insostenibili, il mondo si riduce sempre più.
Lo stronzo alle spalle di Alberto gli tira indietro i capelli, gli solleva la testa. «Hai visto che cosa hanno fatto a quella troia? Chi non rispetta la montagna, viene punito.»
Il mio ragazzo ringhia, mostra i denti, pronto a squarciare la giugulare al vecchio se solo lo lasciasse.
«Ma non è solo lei ad aver sbagliato: tu avresti dovuto impedirglielo. Lei è stupida, ma tu sei un idiota.»
L’espressione di Alberto cambia in un istante, ha la bocca aperta, gli occhi spalancati. «Cosa…»
Il vecchio gira il busto e getta il ragazzo su un letto. I legni cigolano all’impatto. Ghiic!
Alberto punta le mani sulle coperte, si spinge in alto, il vecchio gli mette una mano sulla schiena e lo spinge sul letto. La faccia del ragazzo scompare tra le coltri grigie e una nuvola di polvere. Un urlo di disperazione viene rotti da una sfilza di colpi di tosse.
Il montanaro gli afferra le mutande, le strappa come se fossero di carta e le getta via. Ha già il cazzo in tiro fuori dai pantaloni.
Le braccia del mio ragazzo si muovono impazzite, le appoggia ovunque, prova a colpire l’anziano. «No, aspetta, non…»
Il vecchio si mette dietro di lui, infila il cazzo tra le chiappe di Alberto e spinge con un colpo secco.
Il grido del ragazzo scuote la baita. Le sue braccia puntate contro il letto tremano e cedono.
I miei occhi si chiudono, l’universo è una fessura appena visibile. Qualcosa di caldo cola tra le mie cosce, un sapore vomitevole gira nella mia bocca.
Il vecchio fa andare avanti e indietro il suo bacino contro quello di Alberto. Il letto cigola.
Ghiic!
Ghiic!
Il mondo è una tenebra, le mie membra sono prove di forze, la mia mente spazzata da un vento silenzioso. È successo qualcosa di brutto, sono triste, ma cosa… Io…
Chiic!
Chic!
Chic!
***
Chip!
Cip!
Cip! Cip! Cip cip!
Il gorgoglio di un passero s’insinua sotto il buio del mio sonno. Mi volto su un fianco, il tessuto grezzo che mi copre scivola sulla mia pelle, sembra quello dei sacchi di patate. Come mai non è il solito… Dove… dove sono? Perché io…
Grandine che batte sul tetto di pietra.
Il vomitevole latte drogato che imputridisce nel mio stomaco.
Vecchi puzzolenti che…
I loro cazzi che mi—
Le mie palpebre si spalancano, il cuore è prossimo a esplodere nel mio petto. Un grido muto mi muore in gola.
Balzo a sedere sul letto.
I muri della baita si chiudono attorno a me, mi circondano e… sbatto gli occhi… la luce mi abbaglia, entra a frotte da un muro crollato. L’erba di un pascolo si muove in una brezza, le gocce di acqua del temporale di ieri brillano sotto la luce del mattino. Banchi di nebbia immacolati sono appoggiati sulle pendici verdi delle montagne dall’altra parte della valle. Tutto ha la lucentezza dello smeraldo. Un capriolo solleva la testa dal prato, mi fissa e balza via verso il bosco.
Muovo lo sguardo attorno a me. Dove sono i muri neri di fuliggine, i tre letti, il tanfo, il tavolo? «Cosa…»
Sassi da muro sono sul pavimento attorno a me, sotto un tetto piegato e con i piattoni che stanno su per miracolo. Una coperta marrone bucata e lercia mi avvolge.
Me la strappo di dosso, mi contorco per liberarmene, lo scalcio via da me. L’odore di polvere e acre che emana mi riempie il naso, mi strappa dei colpi di tosse strozzati.
Mi ritrovo seduta nuda sul pavimento lurido pieno di foglie e pezzetti di legno, sassolini mi pungono il sedere. Balzo in piedi, mi passo le mani sul culo per pulirlo.
Oddio, ho qualcosa tra le cosce? Abbasso la testa, apro le gambe e me le tasto. Il cuore mi batte nelle orecchie. Non ci sono liquidi, non c’è nie--
Qualcosa si muove appena oltre il muro crollato, le mani mi balzano a coprire i seni e la figa. Fa che non siano quei vecchi bastardi… o un animale. «Non avvicinarti, io…»
Alberto mi guarda. «Oh, ti sei svegliata.» Gli abiti che indossa sono lerci, ma asciutti. Deglutisce. «S-stai bene?»
«Io…» sbatto gli occhi, mi sento mancare le forze nelle gambe. «La malga? I tre vecchi che ci hanno—»
Il mio ragazzo mi interrompe. «Non c’è nessuna malga, non ci sono vecchi.» Inspira a bocca aperta. Punta il suo sguardo verso qualcosa là fuori. Lo punta lontano da me? «Di cosa stai parlando, Ilaria?»
Non è la malga, questa. Non le assomiglia nemmeno: non c’è il camino, non ci sono i letti. Di certo non può essersi diroccata fino a questo punto in una notte… Mi gratto una tempia. Apro la bocca, ma non so cosa dire. «Non lo so. Ieri stavamo scappando dal temporale, ho preso la strada sbagliata al bivio e siamo finiti davanti ad una malga con tre vecchi inquietanti che…» Cazzo, mi si fermano le parole in gola, come se avessi ancora infilato quel cazzo schifoso… Chiudo gli occhi, mi viene da vomitare. «…che…»
Deglutisco ma la bocca è secca. Le mani rugose dei due vecchi, il tavolo polveroso, i miei muscoli che non rispondevano ai miei comandi, l’altro vecchio che bloccava Alberto. Respiro una boccata di aria fresca e umida. I loro cazzi che riempivano la mia figa e la mia bocca. Alberto che urlava, il vecchio che lo violentava… L’uccellino continua a cantare. Non smettere, ti prego, la tua musica è la mia salvezza…
Alberto scuote la testa. «Non so di cosa stai parlando. Stavamo scendendo dalla montagna, sì, e hai provato a prendere il sentiero sbagliato, ma ti ho richiamata e continuato per quello della salita.»
Non ho memoria di nulla di simile. «Davvero?»
«È stato quando mi sono accorto che avevi la febbre, probabilmente un colpo di sole e la stanchezza della salita. Stavi davvero male.» Alberto fa un passo avanti, una smorfia si disegna sulla sua bocca. «La pioggia ci ha raggiunti e ho deciso di fermarci qui, nella baita diroccata che avevamo visto risalendo, e ci siamo rimasti per la notte: tra fulmini e tempeste, non era il caso di restare all’aperto.»
Mi gratto sotto il mento. In effetti, quando eravamo al laghetto, mi sentivo poco bene… Indico la coperta ai miei piedi. «E questa?»
«Eri bagnata e avevi la febbre al punto da tremare. Dicevo cose sconnesse. Ti ho spogliata e avvolta in quel telo.» Alberto si morde le labbra e apre le braccia. «Non c’era di meglio in questo buco.»
Fisso un mucchio di terra sul pavimento da cui spunta un ciuffo d’erba. No, non ho il minimo ricordo di quanto mi ha detto. Ma se avevo la febbre e vaneggiavo…
Tutto questo casino per colpa mia, per scrivere un articolo da vendere a qualche rivista di escursionismo… «Grazie, Alberto. Probabilmente mi hai salvato la vita.»
«Ci mancherebbe. Non ti ho impedito di salire fino a qui anche se il meteo metteva brutto.» Lui zoppica fino al suo zaino.
«Cos’hai?»
Una smorfia arriccia le sue labbra. Si piega per prendere lo zaino e l’espressione di dolore si allarga agli occhi e alle sopracciglia. Mostra i denti. «Poco fa sono scivolato sull’erba bagnata e ho picchiato l’osso sacro.»
Mi mordo le labbra, il petto mi si stringe. «Mi spiace.»
«Vestiti che torniamo alla macchina.»
Annuisco. I miei abiti sono messi alla meglio su un sasso accanto a me. Devono essere ancora bagn— Le mani toccano il tessuto asciutto. Mi blocco. Com’è possibile?
Sollevo la maglietta. È sporca di polvere nera e costellata di macchie scure. Ha un leggero odore di… La appoggio al mio viso. Puzza di fumo.
Lancio un’occhiata ad Alberto. È fuori dal rudere, lo zaino in spalla, che controlla lo smartphone.
«Hai acceso un fuoco?»
Lui mi guarda con gli occhi granati. «Cosa… Sì!»
Non vedo segni di cenere attorno a me. Non immaginavo nemmeno sapesse accenderlo.
«E dove l’hai—»
Alberto mi fissa. «Dai, Ilaria, muoviti a vestirti che dobbiamo arrivare alla macchina prima delle nove, o scade il biglietto del parcheggio.»
Stringo le labbra per non rispondergli. Che caratteraccio. Prendo le mutandine e me le infilo. Non posso nemmeno rispondergli perché gli sono in debito per la mia vita.
Finisco di vestirmi e allaccio le scarpe. Dentro sono ancora bagnate, il piede affonda nella soletta intrisa di pioggia. Metto lo zaino in spalla e raggiungo il mio ragazzo. Puzza quanto i miei vestiti.
Il sole brilla in cielo appena sopra le cime, l’aria è fresca e i prati e i boschi hanno un verde saturo. Un concerto di uccelli si alza dalle piante più a valle.
«Andiamo.» Alberto mi precede nel sentiero pieno di pozzanghere, zoppica ad ogni passo.
Se è in quelle condizioni è solo colpa mia. «Ti fa male camminare?»
Lui non si volta. «Muoviamoci. Spero che non abbiamo lasciato abbassati i finestrini della macchina.»
Lo seguo senza parlare. Per qualche motivo, un pensiero resta nella mia mente: sotto i pantaloni, Alberto indossa gli slip?
FINE
Post New Comment