I rintocchi del campanile penetrarono nella sua coscienza come aghi sottili, strappandolo dal tepore dei sogni. Dago si mosse nel letto, le lenzuola impregnate del loro odore – un miscuglio di sesso, sudore e il profumo di lei che persisteva come un fantasma sulla federa. La sua mano cercò istintivamente il corpo di Paola, trovando solo freddo vuoto dove prima c’era stato calore.
Il panico lo svegliò completamente. Si alzò a sedere, il cuore che martellava nel petto mentre i suoi occhi scrutavano la penombra della stanza. L’assenza di Paola era palpabile, un vuoto che sembrava divorare l’ossigeno nell’aria. I vestiti di lei non erano più sparsi sul pavimento dove li avevano abbandonati la notte prima. Solo il suo profumo, il suo odore, rimaneva, aggrappato alle lenzuola come un’eco sensuale delle ore passate.
Dal soppalco, Dago dominava l’intero loft. La luce del primo pomeriggio filtrava pigra attraverso le finestre, illuminando la scena del loro delirio – i cuscini ancora sparsi sul pavimento, una bottiglia di vino vuota rovesciata sul tavolino, il suo reggiseno di pizzo nero dimenticato sullo schienale di una sedia. Ogni oggetto fuori posto raccontava la storia della loro passione sfrenata, ogni dettaglio un promemoria di come si erano persi l’uno nell’altra.
Mentre cercava di orientarsi nella realtà del momento, il rumore della porta che si apriva lo fece sussultare. Il suono dei suoi tacchi sul parquet era inconfondibile – quel ritmo cadenzato che aveva imparato a riconoscere fin dal primo giorno, quando la osservava passare davanti alla vetrina dell’agenzia. La tensione nel suo corpo si sciolse, sostituita da un’ondata di sollievo e desiderio.
Preferì fingersi ancora addormentato, spiando attraverso le palpebre socchiuse mentre lei saliva le scale con movimenti misurati, come se non volesse svegliarlo. Il cuore gli batteva forte nel petto – non per il panico questa volta, ma per l’anticipazione di averla di nuovo vicina.
Paola guardo se lui stava ancora dormendo e torno di sotto. Dago sentiva i suoi movimenti nella cucina, il tintinnio familiare di tazze e posate, il fruscio dei suoi vestiti contro il corpo mentre si muoveva nello spazio. Ogni suono era una carezza sonora che gli faceva formicolare la pelle. Le 13.00. Aveva dormito come un morto, esausto dalle ore di passione ininterrotta. Ma bastava ripensare vagamente a quello che era successo dal venerdì notte per sentire un fremito elettrico risvegliargli l’inguine.
Mentre la sua mente vagava tra i ricordi del loro delirio erotico, sentì nuovamente i suoi passi salire le scale. Socchiuse gli occhi, spiandola attraverso le ciglia. Si fermò in cima alla scala, il suo sguardo carico di una dolcezza che gli fece stringere il cuore. Era diversa – un tailleur rosso sangue che sembrava dipinto sul suo corpo, una promessa di sensualità controllata che lo eccitava ancora di più della nudità.
La osservò mentre si spogliava con una lentezza studiata, ogni movimento una danza erotica privata. La giacca scivolò via rivelando solo un reggiseno di pizzo nero che faceva sembrare la sua pelle ancora più cremosa. Quando la gonna cadde, il reggicalze nero contro la sua pelle olivastra gli fece trattenere il respiro. Si tolse tutto tranne il minuscolo perizoma, il suo corpo una scultura di curve morbide e promesse di piacere.
Si avvicinò al letto come una pantera, i suoi movimenti fluidi emanavano una sensualità che gli faceva girare la testa. Il suo corpo era un inno alla femminilità mediterranea – i fianchi generosi, la vita sorprendentemente sottile, il seno prosperoso che si muoveva ad ogni passo. Scivolò sotto le lenzuola, infilandosi tra le sue braccia come se quello fosse l’unico posto al mondo dove voleva essere.
Dago la strinse a sé, inspirando il suo profumo, assaporando il calore della sua pelle contro la sua. La baciò, gustandola lentamente, come se avessero tutto il tempo del mondo. “Dove sei stata?”
“Ho fatto un salto a casa a cambiarmi…” la sua voce era roca, carica di promesse “…e a prendere qualcosa da mangiare. Non so se te ne sei accorto, ma non hai praticamente nulla in casa!”
“Vado il venerdì o il sabato a fare la spesa. Ma questa settimana qualcuno non mi ha dato la possibilità di farlo.”
Risero, i loro corpi ancora intrecciati nel calore del letto. Le sue dita vagavano pigramente tra i capelli di lei, lungo la sua schiena nuda, mentre Paola lasciava scivolare la mano sul suo petto, tracciando percorsi invisibili sulla sua pelle. C’era qualcosa che li torturava dentro – la consapevolezza che questi momenti stavano scivolando via come sabbia tra le dita, che presto avrebbero dovuto affrontare il mondo reale che li aspettava fuori da quel letto.
Improvvisamente lei si sdraiò su di lui, i suoi occhi verdi che cercavano i suoi con un’intensità che gli mozzò il respiro. “Che programmi hai per oggi?”
“Non ho molta voglia di uscire da questo letto… da questa casa!” La sua voce era roca di desiderio e malinconia. “Voglio godermi gli ultimi momenti con te, cercare di imprimermi nella mente ogni cosa di te che posso ricordare.”
Lei lo baciò delicatamente, una carezza di labbra che conteneva più emozione di mille parole. Le sue mani vagavano sulla schiena di lei, riempiendola di brividi che le facevano contrarre i muscoli sotto la pelle. I suoi capezzoli si indurirono contro il suo petto, il suo corpo rispondendo al suo tocco come uno strumento perfettamente accordato.
La fece scivolare su un fianco e scivolò lungo il suo corpo fino a trovarsi con il viso all’altezza dei suoi seni. Il calore della sua pelle era come seta liquida sotto le sue labbra. Iniziò ad accarezzarli, baciarli, giocare con i capezzoli, ogni tocco una promessa di piacere più intenso. Paola chiuse gli occhi perdendosi nel piacere, il suo corpo che si inarcava verso la sua bocca come un arco teso. Dio come adorava la sua bocca, come sapeva usarla per farla impazzire, per ridurla a pura sensazione.
Lasciò che lui le facesse quello che voleva, il suo corpo completamente arreso al piacere che lui sapeva darle. La lingua di Dago si accaniva sui suoi capezzoli, leccandoli con precisione chirurgica, tracciando cerchi sempre più stretti intorno alle areole già gonfie di desiderio. Spesso li mordeva, un dolore delizioso che le faceva contrarre il ventre, e lei sentiva il proprio piacere iniziare a colarle tra le cosce come miele caldo.
Ma lui non accennava a muoversi dai suoi seni, come se volesse marchiare a fuoco nella sua memoria il sapore e la consistenza di ogni centimetro della sua pelle. Anzi aumentava le attenzioni, possedendola completamente attraverso quei due punti sensibili del suo corpo. Le mani stringevano con forza i seni, manipolandoli con una fame primitiva, avvicinandoli in modo che con la lingua, con la bocca, potesse stimolare entrambi i capezzoli contemporaneamente – un’overload sensoriale che le faceva perdere il controllo.
Quando le prendeva un seno e strofinava violentemente il capezzolo sulla lingua si sentiva impazzire, il suo corpo non più suo ma uno strumento nelle sue mani esperte. Incredibilmente sentì il suo corpo riempirsi di fremiti elettrici che partivano dai capezzoli e si irradiavano fino al suo sesso pulsante. Sentiva che stava per venire, un orgasmo che nasceva dal petto e si propagava come un’onda di calore in tutto il corpo. Premette il proprio sesso contro il corpo di Dago alla ricerca disperata di più contatto, più frizione, più di tutto. Il suo orgasmo colò caldo e abbondante sulla pancia di lui, mentre lei tremava senza controllo.
Mentre era ancora scossa dagli spasmi del piacere, lui proseguì la sua discesa inesorabile, tracciando una scia umida di baci lungo il suo ventre. Tentò di ripulire il suo sesso dall’orgasmo, ma bastò il primo tocco della sua lingua per farla bagnare di nuovo, il suo corpo che rispondeva a lui come cera calda. Allargò le gambe offrendogli completamente la sua figa, spingendogliela contro il viso con urgenza animalesca. Lui la leccava con crescente foga, la sua lingua che esplorava ogni piega, ogni punto sensibile, penetrandola in profondità come se volesse bere direttamente dalla fonte del suo piacere.
Non riusciva ad aprire gli occhi, sopraffatta dalle sensazioni che le attraversavano il corpo come scariche elettriche. Quando iniziò a sentire la lingua muoversi velocissima sul clitoride, il piacere divenne insostenibile. Urlò che stava godendo ancora, il suo corpo che si tendeva come un arco mentre un nuovo orgasmo la travolgeva. Dago non si lasciò sfuggire nemmeno una goccia di quel nettare, bevendola come un uomo assetato nel deserto.
Lentamente risalì lungo il suo corpo come un’onda che cerca la riva, assaporando ogni centimetro della sua pelle ancora vibrante di piacere. La sua bocca tracciava una scia di baci, marchiandola come sua. Quando raggiunse le sue labbra, il sapore del suo orgasmo ancora sulla lingua, le sussurrò con voce roca: “Grazie per avermi portato la colazione a letto.”
Paola scoppiò a ridere, un suono cristallino che riempì la stanza di luce. Lo baciò con una fame primitiva, la sua lingua che cercava quella di lui come se volesse divorarlo. E mentre esplorava la sua bocca, sentì il suo cazzo duro aprirsi strada dentro di lei, allargandola lentamente, riempiendola completamente. Il suo corpo rispose istintivamente, inarcandosi per accoglierlo fino in fondo, per sentirlo tutto dentro.
“Cosa mi hai fatto…?” La voce di Dago era un sussurro roco contro le sue labbra. “Mi basta sentire il tuo profumo… e mi viene duro… mi viene voglia di te…” Le sue parole erano crude come il desiderio che li consumava, sincere come il piacere che si davano.
Paola lo fissava con gli occhi lucidi e selvaggi, le pupille dilatate dal piacere come una gatta in calore. Le sue mani si aggrapparono ai suoi glutei, le unghie che affondavano nella carne mentre lo spingeva ancora più in profondità. Il suo bacino ondeggiava contro di lui, cercando di prenderlo tutto, di fondersi con lui.
“Non lo so… ma non smettere…” La sua voce era poco più di un gemito.
Si muoveva dentro di lei con una lentezza straziante, assaporando ogni sensazione – il calore bollente della sua figa che lo avvolgeva come un guanto di seta bagnata, le pareti strette che pulsavano intorno al suo cazzo. Lasciava che la cappella scivolasse quasi completamente fuori, godendosi il modo in cui lei si stringeva per trattenerlo, prima di affondare di nuovo dentro di lei con tutta la sua lunghezza, strappandole gemiti di puro piacere.
Lentamente risalì lungo il suo corpo come un’onda che cerca la riva, assaporando ogni centimetro della sua pelle ancora vibrante di piacere. La sua bocca tracciava una scia umida di baci, marchiandola come sua territorio. Quando raggiunse le sue labbra, il sapore del suo orgasmo ancora sulla lingua, le sussurrò con voce roca: “Grazie per avermi portato la colazione a letto.”
Paola scoppiò a ridere, un suono cristallino che riempì la stanza di luce. Lo baciò con una fame primitiva, la sua lingua che cercava quella di lui come se volesse divorarlo. E mentre esplorava la sua bocca, sentì il suo cazzo duro aprirsi strada dentro di lei, allargandola lentamente, riempiendola completamente. Il suo corpo rispose istintivamente, inarcandosi per accoglierlo fino in fondo, per sentirlo tutto dentro.
“Cosa mi hai fatto…?” La voce di Dago era un sussurro roco contro le sue labbra. “Mi basta sentire il tuo profumo… e mi viene duro… mi viene voglia di te…” Le sue parole erano crude come il desiderio che li consumava, sincere come il piacere che si davano.
Paola lo fissava con gli occhi lucidi e selvaggi, le pupille dilatate dal piacere come una gatta in calore. Le sue mani si aggrapparono ai suoi glutei, le unghie che affondavano nella carne mentre lo spingeva ancora più in profondità. Il suo bacino ondeggiava contro di lui, cercando di prenderlo tutto, di fondersi con lui.
“Non lo so… ma non smettere…” La sua voce era poco più di un gemito.
Si muoveva dentro di lei con una lentezza straziante, assaporando ogni sensazione – il calore bollente della sua figa che lo avvolgeva come un guanto di seta bagnata, le pareti strette che pulsavano intorno al suo cazzo. Lasciava che la cappella scivolasse quasi completamente fuori, godendosi il modo in cui lei si stringeva per trattenerlo, prima di affondare di nuovo dentro di lei con tutta la sua lunghezza, strappandole gemiti di puro piacere.
Andarono avanti così per un tempo che sembrava infinito, persi in quella danza primitiva dei corpi. Il cazzo di Dago diventava sempre più duro dentro di lei, pulsando come ferro rovente, ma resisteva ostinatamente all’orgasmo. Lei era fradicia, il suo corpo un lago di piacere che minacciava di straripare ad ogni spinta. Si sentiva costantemente sull’orlo dell’estasi ma voleva aspettarlo, voleva che esplodessero insieme in quell’ultimo atto del loro delirio.
“Fermati un attimo,” sussurrò con voce rotta dal desiderio. Si girò a pancia in giù con movimenti felini, sollevando il culo in un’offerta che sapeva lui non avrebbe potuto rifiutare. Lo sentì posizionarsi dietro di lei, il suo calore che la faceva fremere d’anticipazione. Mentre allargava istintivamente le gambe, lui gliele richiuse con decisione. Il gesto la fece tremare – adorava quando prendeva il controllo così.
Con la faccia premuta contro il cuscino, privata della vista, ogni sua sensazione era amplificata all’infinito. L’attesa di quello che avrebbe fatto la stava facendo impazzire. Poi sentì la sua cappella, bollente e gonfia come non mai, aprirsi strada tra le sue labbra bagnate. Il suo cazzo la riempì completamente, strappandole un gemito animalesco dal profondo della gola.
Lo sentì puntare i piedi sul materasso e alzarsi dietro di lei, cambiando angolazione per penetrarla ancora più a fondo. Le gambe strette trasformavano la sua figa in una morsa di piacere attorno al suo cazzo, permettendole di sentire ogni vena, ogni pulsazione. Il suo respiro si fece pesante, quel ritmo che lei conosceva bene – stava per perdere il controllo.
Lasciò scivolare una mano tra le proprie cosce, raggiungendo il punto dove i loro corpi si univano. Accarezzò la sua asta mentre entrava e usciva da lei, le sue dita che danzavano sulle palle tese, sempre più vicine all’esplosione. Il suo clitoride pulsava sotto le sue dita mentre si toccava, i suoi umori che le colavano lungo la mano.
Sentì l’orgasmo costruirsi dentro di lei come una tempesta imminente. Le parole iniziarono a sfuggirle dalle labbra – parole sporche, animalesche, che non aveva mai osato pronunciare prima di lui. “Sfondami… riempimi… scopami…” La sua voce era roca, irriconoscibile, carica di una lussuria primordiale.
Finalmente lo sentì cedere – le sue mani che le stringevano i fianchi come morse, il suo urlo di piacere che riempiva la stanza. Le sue palle si contrassero violentemente mentre la riempiva di sperma bollente. Lei soffocò il proprio urlo nel cuscino, aggrappandovisi mentre spingeva contro di lui come una forsennata, il suo corpo che tremava in un orgasmo devastante.
Ma non era abbastanza, non sarebbe mai stato abbastanza. Mentre lui cercava di riprendere fiato, ancora stordito dal piacere, si girò avidamente verso il suo sesso. Lo prese in bocca, succhiando e leccando ogni goccia del loro piacere mescolato, assaporando il sapore unico dei loro orgasmi uniti.
Dago si lasciò cadere sul letto, svuotato di ogni energia. Lei continuava a tenerlo in bocca, la lingua che lo ripuliva con dolce ossessione da ogni traccia del loro piacere. Solo quando fu soddisfatta, scivolò tra le sue braccia, il corpo ancora vibrante.
Restarono così, pelle contro pelle, scambiandosi baci lenti che sapevano dei loro umori mescolati. Il tempo sospeso in quella bolla post-orgasmica, dove esistevano solo loro e il calore dei corpi intrecciati. Fu lo stomaco di Dago a riportarli alla realtà, un brontolio che li fece ridere come ragazzini.
“Ho tutto pronto,” sussurrò Paola, la voce ancora roca, “bisogna solo scaldarlo nel forno. Vuoi farti una doccia prima?”
Dago annuì, ignorando come il suo corpo nudo che si strusciava contro di lui minacciasse di risvegliare nuovamente il desiderio. Si diresse verso il bagno mentre lei lo seguiva con uno sguardo affamato, prima di alzarsi per occuparsi del pranzo.
L’acqua calda gli scorreva addosso come una carezza liquida, scivolando dal collo lungo la schiena in rivoli che sembravano voler lavare via l’intensità delle ore precedenti. Con le mani appoggiate alle piastrelle, lasciò che i ricordi lo attraversassero – ogni gemito, ogni spinta, ogni goccia di piacere condiviso. La realtà sembrava un sogno febbricitante di lussuria e abbandono.
Il suono della porta che scorreva fu quasi impercettibile. Non si mosse, fingendo di non aver sentito nulla, il cuore che accelerava nell’attesa. Poi, senza preavviso, il calore umido della sua bocca lo avvolse completamente. Le sue labbra lo stringevano come una morsa di velluto, iniziando a muoversi su e giù con una lentezza studiata che gli fece tremare le ginocchia.
Aprì gli occhi e la trovò inginocchiata davanti a lui, il suo cazzo che scompariva tra le sue labbra rosse mentre i suoi occhi felini lo fissavano con una fame primordiale. La sua lingua danzava sulla sua carne, saettando sulla cappella come quella di un serpente prima di scivolare lungo tutta l’asta fino alle palle, per poi ricominciare la sua danza ipnotica. Il suo membro rispondeva a ogni tocco, gonfiandosi e indurendosi nella sua bocca calda.
Affondò una mano nei suoi capelli bagnati, costringendola a fermarsi. Lei lo guardò con occhi supplichevoli, la bocca ancora aperta in attesa. Iniziò a scoparle la bocca con foga crescente, spingendosi dentro con forza, guardandola mentre lo prendeva tutto. La lasciò libera solo per un momento, il tempo di schiaffeggiarle il viso con il cazzo duro, un gesto che la sorprese e fece gemere di piacere.
La tirò su per i capelli, divorandole la bocca in un bacio violento mentre lei continuava a masturbarlo, la mano che si muoveva su e giù come se la sua vita dipendesse da questo. La sua figa pulsava sotto le sue dita quando le infilò una mano tra le gambe – era così bagnata che il pensiero gli fece quasi perdere il controllo.
La girò con forza contro il muro, tenendola ferma mentre tracciava percorsi immaginari sulle sue chiappe con la cappella. Quando lo puntò contro il suo buchino, si fermò per un istante – voleva godersi il modo in cui il suo corpo tremava d’anticipazione. Poi la penetrò con un’unica spinta brutale, strappandole un grido dal profondo della gola.
L’acqua creava rivoli argentei sulla sua schiena, piccole cascate che si perdevano tra le sue chiappe dove i loro corpi si univano violentemente. Le sue gambe cedevano sotto le spinte sempre più forti, mentre lui le afferrava i seni come ancore di carne. Il suo cazzo la possedeva completamente, violando ogni sua intimità, riempiendola fino a farla tremare. Le sue mani vagavano dal suo clitoride ai suoi capezzoli, torturandola di piacere mentre lei si contorceva tra le sue braccia.
Il suo orgasmo esplose come un tuono nella doccia di vetro, il suo corpo che si contraeva violentemente intorno al suo cazzo. Ma lui non era ancora soddisfatto. La rimise in ginocchio, il suo cazzo che puntava al suo viso come un’arma carica. Glielo spinse in bocca fino in fondo, e lei lo accolse avidamente, cercando di prenderlo ancora più a fondo nella gola.
Appena la lasciò libera, si avventò sul suo cazzo come una predatrice affamata. Lo voleva tutto, voleva sentirlo esplodere nella sua gola, voleva bere ogni goccia del suo piacere. La sua lingua saettava sulla cappella mentre lo succhiava con ferocia, le labbra strette intorno all’asta che pulsava nella sua bocca. Con una mano gli massaggiava le palle, sentendole tese e pesanti, pronte a riempirla del suo sperma.
Ma nonostante il suo impegno disperato, lui resisteva ancora. Ad ogni affondo nella sua gola, ad ogni succhiata vorace, il suo cazzo diventava più duro, più gonfio, ma l’orgasmo sembrava sfuggirle. Le doleva la mascella, ma non voleva fermarsi – era ossessionata dal desiderio di farlo venire, di sentire il suo piacere esploderle in bocca.
A Dago doleva da quanto era duro, da quante volte era stato duro per lei, ma era impossibile resistere alla sua bocca famelica, al modo in cui lo succhiava come se fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto. Lei era la sua perdizione, una sirena del sesso che lo aveva stregato con la sua fame insaziabile.
Con uno sforzo che attingeva alle ultime riserve di energia, la sollevò in piedi. “Lo voglio in bocca… ti prego… voglio che mi vieni in bocca…” La sua voce era roca, quasi disperata nel suo desiderio. Ma lui aveva altri piani. La prese in braccio, penetrandola con un movimento fluido che li fece gemere entrambi. Non sapeva da dove venissero ancora queste forze – forse dalla consapevolezza amara che questi sarebbero stati gli ultimi momenti con lei, che ogni spinta era un addio, ogni gemito un ricordo da custodire.
La muoveva su e giù sulla sua asta con urgenza crescente, mentre lei si aggrappava alle sue spalle come una naufraga alla sua ancora. Era così bagnata che il suo cazzo scivolava dentro e fuori di lei come se i loro corpi fossero stati creati per questo – per fondersi, per perdersi l’uno nell’altra un’ultima volta.
Sentì il piacere montare velocemente, un’onda di calore che minacciava di travolgerlo. Era il momento di darle ciò che desiderava così ardentemente. “Vai a prenderti quello che desideri!” La sua voce era un comando roco che non ammetteva repliche.
In un istante lei scivolò giù lungo il suo corpo, avventandosi sul suo cazzo come una creatura posseduta. Lo succhiava con una ferocia disperata, come se volesse imprimere nella memoria ogni vena, ogni pulsazione. La sua bocca si muoveva a velocità folle, mentre mugolava di piacere attorno alla sua carne dura.
Dago sentì l’orgasmo costruirsi dalla base della spina dorsale, il suo corpo che vibrava come una corda di violino troppo tesa. I brividi lo attraversavano come scariche elettriche mentre i gemiti gli sfuggivano incontrollati dalla gola. Lei, sentendolo vicino, accelerò ancora, i suoi mugolii di piacere che risuonavano nella doccia come una preghiera oscena.
Quando finalmente esplose nella sua bocca, lei bevve ogni goccia come se fosse nettare divino, succhiandolo avidamente fino all’ultima stilla. Lui rimase appoggiato contro la parete di cristallo, svuotato di ogni energia, mentre lei continuava a tenerlo in bocca, succhiandolo dolcemente ora, come se non volesse lasciarlo andare, come se potesse in questo modo fermare il tempo e restare per sempre in questo momento.
Restarono così, persi in quella dimensione senza tempo dove esistevano solo i loro corpi intrecciati e il rumore dei loro respiri che tornavano lentamente regolari. L’acqua della doccia si era raffreddata sulla loro pelle, ma il calore tra loro non accennava a diminuire.
Nel forno, il pranzo si trasformava lentamente in cenere – un sacrificio sull’altare della loro lussuria che nessuno dei due rimpiangeva. Uscirono a mangiare, trovando un ristorante tranquillo dove potevano prolungare l’illusione che il tempo non stesse scivolando via tra le loro dita.
Il pranzo divenne un rituale di negazione, ogni boccone un pretesto per restare ancora un po’, ogni sorso di vino un’occasione per perdersi negli occhi dell’altro. Parlavano di tutto e di niente, evitando accuratamente di guardare l’orologio che segnava inesorabilmente la fine del loro delirio condiviso.
“È tardi,” sussurrò infine Paola, le parole che pesavano come piombo sulla lingua. “Mi accompagni a casa?”
Dago guidava come in trance, ogni semaforo rosso una benedizione che gli regalava ancora qualche istante con lei. Il suo profumo riempiva l’abitacolo, mescolato all’odore del sesso che ancora impregnava i loro corpi – un cocktail inebriante di desiderio e rimpianto.
Nel garage sotto casa di lei, cercarono un angolo buio dove nascondersi ancora un po’ dal mondo reale che li aspettava fuori. Il silenzio dentro l’auto era denso di parole non dette, di promesse impossibili, di desideri che bruciavano troppo per essere espressi.
“Cosa facciamo adesso?” La voce di Dago era roca, carica di tutte le emozioni che non poteva – non doveva – esprimere.
“Non me lo chiedere…” Le sue dita trovarono il viso di lui nell’oscurità, tracciandone i contorni come per imprimerli nella memoria. Lo baciò con una dolcezza che sapeva di addio. “Amami ancora una volta. Amami come se fosse l’ultima volta.”
Lo tirò sopra di sé con movimenti lenti e misurati, il sedile che si reclinava con un click che echeggiò nel silenzio del garage. I loro corpi si cercavano nell’oscurità come animali notturni, guidati solo dal desiderio e dalla disperazione di quell’ultimo momento rubato al destino.
Dago si abbandonò al suo controllo, lasciandosi trasportare dalle sue mani che lo esploravano con una disperazione febbrile. Le loro bocche restavano unite in un bacio che sapeva di addio, le lingue che danzavano come se volessero memorizzare il sapore l’uno dell’altra. Lei gli aprì i pantaloni con movimenti urgenti, liberando la sua erezione già pulsante. Lo accarezzò con una tenerezza quasi dolorosa prima di guidarlo verso il suo sesso già bagnato, le mutandine spostate di lato con impazienza. Lui scivolò dentro di lei con una lentezza straziante, ogni millimetro un’eternità di piacere e rimpianto.
I loro corpi si fondevano nell’oscurità del garage, carne contro carne che cercava di diventare una cosa sola. Le loro bocche non si staccavano, come se in quel bacio infinito potessero fermare il tempo. Si muovevano con un ritmo lento e ipnotico che cresceva d’intensità come una tempesta che si avvicina, i loro gemiti soffocati che riempivano l’abitacolo. Come adolescenti al primo amore si nascondevano dal mondo in quella bolla di passione, incuranti di tutto se non della fame che avevano l’uno dell’altra.
Per le loro menti febbricitanti, per i loro corpi mai sazi, ogni sensazione era amplificata come se fosse la prima volta – ogni tocco una scoperta, ogni spinta una rivelazione. Era il loro modo di dirsi addio, di imprimere nella carne il ricordo indelebile di quei due giorni di delirio.
Quando l’orgasmo li travolse, Paola lo strinse a sé con una forza disperata, come se potesse così tenerlo con sé per sempre. Il suo corpo tremava attorno al suo sesso mentre ondate di piacere la attraversavano senza fine, marchiandola nell’anima come un sigillo rovente. Rimasero abbracciati e ancora uniti, i visi nascosti l’uno contro il collo dell’altro per non mostrare le lacrime che bagnavano silenziose le loro guance, i respiri spezzati da singhiozzi trattenuti che dicevano tutto ciò che le parole non potevano esprimere.
Si ricomposero con movimenti lenti e misurati, come se ogni gesto fosse immerso in una melassa di ricordi e rimpianti. I loro corpi si allontanavano centimetro per centimetro, e con ogni distanza che si creava sentivano parti della loro anima strapparsi dolorosamente, lasciando ferite invisibili ma brucianti.
Dago guidò verso casa come un automa, gli occhi annebbiati di lacrime che si rifiutava di versare. Il mondo fuori dal finestrino era un blur insignificante – l’unica realtà erano i fantasmi delle sue mani sulla pelle, l’eco dei suoi gemiti nelle orecchie, il sapore della sua bocca ancora sulle labbra. Chiuse la porta di casa dietro di sé con un tonfo sordo che sembrava sigillare la fine di quel sogno febbrile. Salì le scale verso la camera da letto, dove le lenzuola sfatte erano una mappa dei loro corpi intrecciati, ogni piega un ricordo di piacere. Si spogliò come in trance, lasciando cadere i vestiti che ancora portavano il suo profumo. Si arrotolò nelle coperte che sapevano di sesso e di lei, cercando di catturare gli ultimi residui del suo calore, della sua essenza. Restò immobile, perso in un limbo tra realtà e memoria, dove esisteva solo lei – il modo in cui si era data a lui, come lo aveva marchiato nell’anima con ogni gemito, ogni orgasmo, ogni “ti prego” sussurrato nel buio.
Paola lasciò che l’ascensore la portasse verso la sua gabbia dorata, dove l’assenza della servitù era un ultimo regalo del destino. Il bagno che si preparò era bollente come la sua pelle quando lui la possedeva, e mentre si immergeva nell’acqua chiuse gli occhi immaginando che fossero le sue mani a scaldarla, a toccarla. Ogni ondina che le accarezzava il corpo era la sua lingua che la esplorava, ogni goccia che le scivolava sulla pelle era il suo sperma che la marcava. Con gli occhi chiusi, si permise un’ultima fantasia – le sue dita che vagavano sul proprio corpo erano le sue, ruvide ed esigenti. Non era ancora pronta a tornare ad essere la signora Padovan – voleva restare ancora un po’ la puttana di Dago, la sua schiava, la sua ossessione.
I sette giorni che seguirono furono un limbo di sensazioni fantasma – il sapore della sua pelle sulla lingua, l’eco dei suoi gemiti nelle orecchie, il calore del suo corpo che si dissolveva lentamente dalle sue mani. Non l’aveva più vista, nemmeno al bar, ma la sua assenza era una presenza costante che lo torturava. Le immagini di lei lo assalivano nei momenti più imprevisti – la sua risata cristallina, le sue carezze brucianti, i suoi baci che sapevano di fame e disperazione. Non voleva dimenticarla. Non avrebbe potuto, anche se avesse voluto.
Il weekend fu un esercizio di presenza assente. Gli amici che cercavano di trascinarlo nella vita reale, mentre la sua mente vagava sempre verso di lei, verso quei due giorni di delirio che gli avevano cambiato l’anima. Alla fine si erano arresi, lasciandolo galleggiare nel suo mare di ricordi.
Quel lunedì mattina l’ufficio era immerso nel solito torpore d’inizio settimana. Le scrivanie ordinate, i computer che ronzavano piano, i colleghi persi nei loro rituali quotidiani. Sapeva che si erano accorti del suo stato – gli sguardi di comprensione, il modo in cui evitavano certi argomenti. Ma come spiegare che non era la stanchezza post-vendita, ma un vuoto che gli divorava le viscere?
“Forse è meglio che vado a prendermi un altro caffè.” Le parole gli uscirono dalla bocca quasi contro la sua volontà, come se il suo corpo sapesse qualcosa che la sua mente ancora ignorava.
Per strada, ogni donna con i capelli castani faceva accelerare il suo cuore per un istante, prima della delusione. Entrò nel bar distrattamente, gli occhi che vagavano per abitudine – e il mondo si fermò. Era lì. Il suo corpo emanava una luce diversa, come se anche lei avesse passato la settimana a bruciare di desiderio e ricordi. I loro sguardi si incontrarono, e in quell’istante tutto il resto svanì – i rumori del bar, le altre persone, il tempo stesso.
Sedette di fronte a lei, la gola stretta da tutte le parole non dette che premevano per uscire. Il silenzio tra loro era denso di promesse, fino a quando Gianluca non lo spezzò con la sua presenza.
“Mio marito viene trasferito in Giappone.” Le sue parole gli gelarono il sangue nelle vene. Il Giappone – così lontano che sembrava un altro pianeta. I pensieri si accavallavano nella sua mente come onde impazzite, cercando disperatamente un modo per non perderla. Ma prima che potesse trovare le parole, lei continuò: “Gli ho detto che non ho nessuna intenzione di seguirlo. Io resto qui, e lui non ha fatto nessuna obiezione.”
Fu allora che capì cosa c’era in quello sguardo luminoso, cosa era quella energia che sembrava irradiarsi da lei – libertà. La stessa libertà che ora sentiva esplodere nel proprio petto, che gli faceva tremare la mano mentre la allungava per sfiorare la sua.
Non c’era bisogno di parole. I loro occhi parlavano una lingua più antica e più vera – la lingua del desiderio, della promessa, del futuro che si apriva davanti a loro come un libro ancora da scrivere. E in quello sguardo condiviso c’era tutto: le notti di passione che li aspettavano, i giorni di complicità, gli anni di scoperta reciproca. Non era più solo sesso – era l’inizio di qualcosa di più profondo, più vero, più loro.
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