Le ultime ore di Molly (sesso con Molly)

“Sbrigati, Molly! Porta queste zuppe al tavolo in fondo, poi torna subito qui che devo farti vedere una cosa!”

Il vocione, dal tono perentorio e incazzato, giunse alle mie spalle e mi provocò un brivido lungo tutta la schiena. Per sfuggirgli, uscii velocemente dalla cucina e mi precipitai nella sala della locanda. La mia situazione certo non migliorò. Anzi, l’ambiente era immerso nel più totale caos e affollato da avventori rozzi e chiassosi: c’era chi batteva i pugni sui tavolacci di legno lurido per far prevalere le proprie argomentazioni, chi rideva sguaiatamente a battute totalmente idiote, chi urlava per richiamare l’attenzione di un cameriere, chi cantava inni camerateschi e anche qualcuno che, ormai ubriaco fradicio, russava con la testa immersa in ciò che gli rimaneva nel piatto che, spesso, era il suo stesso vomito.

Essere catapultata così repentinamente dalla mia fantastica condizione di imperatrice, avvolta dal lusso e dalla tranquillità, ad una così infernale e degradata, mi provocò un istinto suicida, tanto ero quasi certa che mi sarei reincarnata altrove e, qualsiasi altro luogo o tempo, sarebbero stati meglio di quello che stavo vivendo.

“Ehi, giù le mani, porco!” urlai ad un tizio che mi si era aggrappato al culo con entrambe le mani, mentre cercavo di servire intatte le zuppe, come mi era stato ordinato dal proprietario di quel maledettissimo posto.

La risposta del porco fu, come al solito, una risata sguaiata, suggellata dalle pacche sulle spalle che ricevette da alcuni suoi compari, uno dei quali commentò: “Fantastico il culo di Molly, vero?”

“E dovresti sentire come sono sode le sue magnifiche tette…” gli fece eco il tizio di fronte.

Tornando fortunatamente illesa verso le cucine, mi diedi un veloce sguardo: riuscii a realizzare che, pur non essendo molto alta, risultavo piuttosto attraente, con i miei capelli colore del fuoco, la pelle chiarissima e delle belle tette, non troppo grosse, ma ben tornite e invitanti.

Voltai un angolo e mi ritrovai di fronte l’oste che mi attendeva, furente e paonazzo, con le mani sui fianchi: “Devi rispondere educatamente ai clienti! Fai in modo che non debba buttarti fuori già al tuo primo giorno di lavoro!” mi urlò.

“Ma, il tizio mi ha palpato il culo…” risposi cercando di giustificarmi.

“E che cazzo vuoi che sia!” replicò, sempre urlando. “Probabilmente, tu non hai capito una cosa, Molly!”

Mi afferrò per un braccio e mi fece attraversare a forza la cucina, per poi spingermi dentro un piccolo magazzino di cui chiuse la porta a chiave dietro di sé.

Venne verso di me slacciandosi il laido grembiule che portava in vita. Arretrai il più possibile, fin quando le mie spalle non urtarono uno scaffale colmo di provviste. Al che, alla sua totale mercé, non potei far altro che osservare le sue mosse successive: continuando a fissarmi quasi ipnotizzato e a sudare, si aprì i pantaloni che lasciò cadere fino alle caviglie e, da sotto il pancione enormemente gonfio e parzialmente coperto da peli lunghi e scuri, prese a menarsi l’uccello, anch’esso grasso e pelosissimo.

Dopo alcune decise segate, sempre tenendolo in pugno, con l’altra mano mi afferrò una tetta e la strinse fino a farmi male. Ero terrorizzata e con il battito cardiaco impazzito. Egli se ne accorse e, probabilmente per mitigare la mia tensione, mi fece qualche complimento: “Hai delle tette bellissime, mia cara Molly. Sono sicuro che, se sarai paziente nel soddisfarmi, diventeremo buoni amici.”

Detto ciò, allentò la presa al mio seno e passò la mano sull’altro, più delicatamente, sempre senza distogliere lo sguardo dalle mie colline.

Dopo interminabili istanti, mi pose la mano sul capo, mi costrinse a chinarmi di fronte a lui e  presentò il cazzo davanti alla mia bocca. Esitai prima di imboccarlo, perché aveva lo stesso odore del grasso rancido di maiale, come tutto il resto del suo corpo.

Soggiogata dalla sua decisa presa tra i miei capelli, non ebbi alternativa, se non quella di iniziare a spompinarlo con tutte le forze ed augurarmi che sborrasse il più velocemente possibile.

Contrariamente a quanto avevo ipotizzato, il lurido grassone dimostrò un certa resistenza a tutte le mie arti di giovane, ma già sgamata, bocchinara. Mentre glielo pompavo senza pietà, fregandomene completamente se ciò potesse provocargli dolore, la mia testa rimbalzava contro il suo pancione e, tra un affondo e l’altro, sentivo la mia fronte restare incollata ad esso per via del sudore e del lerciume di cui era intriso.

Non mi fu facile arrivare ad una veloce conclusione: il cazzo tozzo, semi imbucato tra le pieghe del suo ventre, ricoperto della mia saliva, mi sfuggiva di mano e sgusciava dalle mie labbra, ritardando inesorabilmente la sua sborrata, di cui ricevetti il primo schizzo sulla bocca, mentre feci riversare il resto della brodaglia sulle tette.

Ciò piacque molto al mio padrone che, lasciata andare la tensione dell’orgasmo e l’incazzatura precedente, sorrise paciosamente scuotendo le ultime gocce di sborra che mi finirono sul collo.

“Sei stata molto brava, cara Molly. Andremo molto d’accordo, noi due. Ne sono sicuro. Ma ora devi soddisfare i clienti che ti hanno richiesta. Datti una veloce ripulita, poi corri per prima nella camera 3, poi nella 4 e, infine, nella 1. Quello della 2 non mi ha ancora pagato i tuoi servizi extra, perciò aspetta che ti dica qualcosa io. È tutto chiaro, bellezza?”

Rimasi impietrita ad osservarlo. La prospettiva di fare la prostituta con quei vermi era per me davvero ributtante. Ricevetti un sonoro ceffone, seguito dalla medesima domanda: “È tutto chiaro? Ti ho chiesto!”

Portandomi la mano sulla guancia dolorante, scossi affermativamente la testa e mi fiondai verso l’uscita del magazzeno.

Prima di lasciare la cucina, immersi un lembo della gonna in un boccale di birra abbandonato da chissà chi e mi detersi il viso e il petto, nauseata dall’odore dello sperma, ormai quasi completamente incrostato.

Con le lacrime agli occhi, salii la scala che conduceva al piano superiore, dove c’erano le camere, i cui numeri erano sommariamente intagliati con il coltello sulle assi delle loro porte sgangherate e cigolanti.

Tutto era sgangherato, cigolante e lurido in quel maledetto posto. Prima di bussare alla prima camera che mi era stata indicata, giurai a me stessa che non sarei diventata anch’io sgangherata, cigolante e lurida: piuttosto, mi sarei ammazzata.

“Vieni pure avanti, Molly!” mi fu risposto dall’interno, aspettandosi ciò per cui avevano pagato.

Quando entrai, trovai la sorpresa: i clienti da soddisfare erano due, sdraiati uno accanto all’altro, su due letti separati ma piuttosto vicini.

Le mie narici furono subito martoriate dal fetore dei loro piedi, avvolti da calzini macilenti e di colore ormai indefinito. Le loro vesti non erano da meno e mi venne spontaneo pensare come cazzo fosse possibile che preferissero spendere parecchi soldi per pochi minuti con una puttana, piuttosto che comprarsi qualche indumento più decoroso che gli sarebbe durato smisuratamente più a lungo di una semplice scopata.

“Io e il mio amico abbiamo già tirato a sorte per chi ti scoperà per prima, e ho vinto io!” esclamò raggiante il tizio, parzialmente sdentato, alla mia sinistra.

“Sai che cazzo me ne frega di chi sarà il primo?” pensai.

“Tira fuori il tuo cazzone e fammi vedere quanto ti viene duro.” lo esortai, e lui ubbidì come un cagnolino. Iniziò a menarselo, inconsapevole che, così facendo, mi stava risparmiando un bel po’ di lavoro.

“Che idiota!” riflettei, compiaciuta per quanto ero stata brava a manipolare il mio primo cliente da puttana.

“Bravo, sparati un bel segone, così mi fai bagnare tutta!” gli dissi toccandomi la passera attraverso l’ampia gonna, mentre l’altro teneva lo sguardo fisso sul cazzo dell’amico.

Attesi che si desse almeno una ventina di segate, poi andai verso il suo letto, mi ci misi in ginocchio e avanzai fino a quando fui a cavallo dei suoi fianchi.

Alzai la gonna e mi impalai su quel pisello dalle dimensioni abbastanza modeste.

Presi a fare su e giù appoggiando le mani sul petto del mio cliente che non riusciva a biascicare parola, tanto era impegnato a guardarmi il petto che ondeggiava all’unisono con il mio bacino.

Ad un certo punto, il compare, che non aveva mai smesso di maneggiarsi il pacco attraverso i pantaloni, disse: “Ehi, Molly, alza la gonna che voglio guardarti il culo mentre scopi!”

“Col cazzo! Questa è la mia scopata! Se vuoi vederle il culo, sgancia due Scellini!” protestò quello sotto di me.

“Bell’amico che sei!” replicò, recuperando da una tasca due monete che buttò sul nostro letto.

Così, quello che mi stavo scopando, mi alzò la sottana, permettendo al socio di vedere di profilo il suo cazzo che affondava e riappariva ritmicamente dalla mia fica.

Lo spettacolo durò poco, in quanto l’amico resistette ancora una trentina di secondi. Poi, venne allagandomi: “Wow! Eri proprio bello pieno!” osservai.

“Eh, sì. E tu sei stata così brava…” rispose, dandomi un’ultima smanazzata alle tette mentre mi sollevavo e sentivo colare la sborra lungo una coscia.

Prima di dedicarmi all’altro, feci per darmi una sommaria pulita, ma egli mi bloccò: “No, no! Ferma! Voglio scoparti mentre sei bella piena!”

“Come preferisci, porco!” dissi. Nel frattempo, si era abbassato i pantaloni e mi faceva cenno di andargli sopra velocemente.

Assecondai la sua richiesta. Il suo cazzo si fece facilmente strada nella mia vulva, affondando nella crema dell’amico.

L’effetto pastoso di tutto quell’impiastramento fu micidiale per la sua resistenza: riuscii a contare meno di dieci su e giù, poi mi ritrovai nuovamente con la fica inondata di sperma.

“Mmmh.., Ahhh…, Ohhh…” era tutto ciò che riusciva a dire, con gli occhi quasi ribaltati.

“Cazzo, mica starà morendo?” mi domandai, mostrando al suo amico la mia espressione allarmata.

“Tranquilla, fa sempre così quando gode…” mi rassicurò ridendo scompostamente.

Mi scavallai da quel mezzo cadavere e riassettai la gonna. “Bene, signori. È stato un piacere. Buonanotte.” dissi in procinto di afferrare la maniglia della porta.

“Aspetta, Molly! Questi sono tuoi!” disse il primo che mi ero scopata, porgendomi i due Scellini che si era fatto pagare dal socio.

Di fronte a tale gesto, ritenni che il tizio si meritava di ricevere un mio sorriso, così glielo concessi, assieme all’involontario scintillio dei miei occhi.

Presi velocemente il danaro, lo imboscai dentro al fazzoletto che tenevo nella tasca anteriore della sottana e mi dileguai nel corridoio.

Secondo gli ordini che avevo ricevuto dal padrone, ora toccava agli occupanti della camera 4 che, ahimè, erano in tre.

Con questi, il copione non fu molto differente da quello con i primi due, ad eccezione che uno volle che gli succhiassi l’uccello, mentre scopavo a pecora con un altro.

Constatai che non avevano proprio altre fantasie o ambizioni erotiche, ad eccezione di ficcare il cazzo in un buco e sborrare il più velocemente possibile.

“Meglio così!” conclusi, dirigendomi verso l’ultima camera che dovevo farmi.

Bussai ripetutamente senza ottenere risposta, così presi l’iniziativa di socchiudere la porta e fare capolino all’interno della stanza. L’unico occupante, spaparanzato nel letto con braccia e gambe divaricate, russava pesantemente a bocca spalancata.

“Peggio per te, coglione.” pensai. Richiusi l’uscio e tornai al piano inferiore.

La sala era ormai quasi deserta: restavano, accasciati sulle panche, solo un paio di ubriachi che i due camerieri e il barista stavano sollevando per poi buttarli fuori, in mezzo al fango, assieme ad altri compagni di bevute che avevano già ricevuto il medesimo trattamento “di cortesia”.

Davanti all’entrata della cucina, mi si parò l’oste: “Allora, Molly, te lo sei guadagnato lo stipendio con quei maiali? Sono rimasti contenti?”

“Sì, signore. Credo proprio di sì…” risposi tremante, sia per il timore di un nuovo rimprovero, sia per i muscoli delle gambe che mi dolevano e la passera che mi bruciava.

“Domani chiederò ai clienti se mi hai detto la verità.” minacciò, puntandomi il dito davanti al volto. Poi, cambiò tono: “Adesso, vai pure a dormire. Domani è domenica e apriremo solo nel tardo pomeriggio. Così, avrai mezza giornata libera per farti un bel bagno e andare in chiesa a confessare i tuoi peccati di sgualdrina.”

Quest’ultima affermazione mi lasciò basita: “Quali peccati dovrei confessare? Forse, le porcate che mi avete costretta a fare con la forza e con le minacce?” avrei voluto rispondere, ma ritenni più prudente tacere e ritirarmi nella cameretta che mi era stata assegnata sul retro della stamberga confinante con la locanda.

 

L’indomani, fui svegliata dall’ingresso nello squallido stanzino della moglie dell’oste, una megera con lo sguardo truce che non mi degnò di un saluto.

Mi portò una brocca d’acqua, appena tiepida, e un piatto con la misera colazione: un pezzo di pane semi raffermo, una tazza di latte e una cucchiaiata di marmellata, della quale stentai a comprendere con quale frutto fosse stata fatta.

Cercai di farmi bastare l’acqua per lavarmi, poi consumai il frugale pasto.

Mi vestii con l’unico cambio che avevo, diedi una sistemata ai capelli che raccolsi dietro la nuca, e lavai nell’acqua gelida gli abiti che indossavo la sera precedente.

Prima di andare in chiesa, passai dalla locanda per ritirare la paga settimanale. L’oste era solo e mi venne incontro: “Vedo che ti sei agghindata degnamente per presentarti al Vicario…”

“Grazie.” risposi, non trovando nulla di così “dignitoso” nel mio abbigliamento.

“Tieni, te li sei meritati!” aggiunse con un ghigno soddisfatto, porgendomi un mezzo pugno di monete che, volutamente, erano di piccola pezzatura, per illudermi che la cifra fosse superiore rispetto a quella che effettivamente era.

“E questo è un piccolo extra. I clienti sono stati entusiasti e mi hanno riferito che sei andata oltre le loro aspettative, con la tua fichetta… Ah, ah, ah…”

Presi la mancia e la unii al resto dei soldi.

“Però, adesso, devi andarti a confessare. Non voglio che sotto il tetto di casa mia ci sia una peccatrice che non ha ricevuto il perdono di Dio!”

“Vado subito, signore.” risposi sommessamente.

“Brava ma, intanto che ci sei, confessa anche questo.” Al che, mi spinse contro un tavolo, mi fece voltare e mi costrinse ad appoggiare il busto sul piano.

Mi sollevò la sottana, mi allargò le gambe usando i piedi e, senza lasciarmi il tempo di fiatare, con un colpo secco mi sfondò il culo.

Il dolore lancinante mi fece emettere un grido che lui fu svelto a soffocare, tappandomi la bocca con una delle sue tozze e untuose manacce.

Fece i suoi porci comodi scopandomi come una cagna, mentre tentavo di trattenere le lacrime e si faceva sempre più radicata nel mio animo la mia risolutezza di farla finita.

“Datti una pulita!” mi ordinò, lanciandomi uno straccio, “Non vorrai mica presentarti al cospetto del Signore con il culo tutto sborrato…”

Afferrai la pezza di tessuto ed eseguii come un automa, poi uscii svelta e mi diressi verso il centro del villaggio, cercando di evitare le pozzanghere e le merde che incontravo sul cammino.

Quando arrivai nei pressi della chiesetta, la funzione domenicale era già conclusa, ma scorsi il Vicario accanto al portone d’ingresso che stava salutando gli ultimi fedeli che uscivano.

Anche lui mi notò e attese che gli fossi davanti: “Buongiorno, cara. Tu devi essere Molly, la nuova servetta della locanda. Vero?”

Il tono mellifluo e il volto da faina non mi fecero presagire nulla di buono.

“Sì, signore.” risposi, abbassando gli occhi.

“Bene. Hai bisogno del conforto del Signore?” domandò, accarezzandomi la testa.

Annuii senza guardarlo in volto.

“Seguimi, cara.” Varcò l’ingresso e io lo seguii fino ad un confessionale, dove mi inginocchiai in attesa che completasse il rito iniziale della confessione.

“Dunque, Molly: confessa al Signore tutti i tuoi peccati…”

Esitai qualche istante, perché ritenevo che, se avevo commesso qualche peccato, non era stato per mia volontà, compreso il desiderio di suicidarmi che ne era una diretta conseguenza.

“Non avere timore, mia cara. Apriti liberamente: il Signore è magnanimo ed è disposto a perdonarti, se tu gli racconti nei dettagli gli atti immorali che hai commesso.”

Come avevo ipotizzato, anche il Vicario era un lurido porco, desideroso di farsi fantasie erotiche ascoltando la mia confessione. Dopo quasi un’ora e un’infinità di domande pruriginose, in merito a dove mi toccavano, a quali posizioni avevo assunto, su cosa mi dicevano gli uomini mentre mi scopavano, su come li avevo fatti sborrare, etc., finalmente ricevetti l’assoluzione, assieme all’ovvia penitenza: “Ti assolvo dai tuoi peccati, Molly. Ora andremo in sacrestia e reciteremo insieme alcune preghiere di espiazione, perché hai peccato tanto e ripetutamente, e la tua anima dev’essere ripulita per bene se vuoi che torni nella grazia di Dio.”

Uscì dal confessionale e mi invitò a seguirlo. Imboccammo una porta che divideva la zona dell’altare da un breve corridoio, intriso di odore di muffa che nemmeno il profumo dell’incenso riusciva a mascherare.

La sacrestia era occupata prevalentemente da un armadio dall’aspetto monumentale, di legno scurissimo, dove alle ante chiuse si alternavano alcuni ripiani ingombri di oggetti sacri.

Quasi al centro, di fronte ad un crocefisso altrettanto scuro e coperto di sporco, campeggiava un inginocchiatoio, dove il prelato mi fece accomodare. Si mise di fronte a me e, dopo avermi imposto il segno della croce, recitò un breve salmo in latino, quindi mi domandò: “Conosci qualche preghiera, Molly?”

“Sì, certo.” risposi.

“Allora, inizia a recitare quelle che sai e non fermarti fino a quando non sarò io ad interromperti.”

Ubbidii alla sua esortazione e, con gli occhi rivolti in basso e le mani giunte, appoggiate alla parte anteriore dell’inginocchiatoio, iniziai le mie orazioni a voce bassa, con lui che rimase di fronte, ritto e immobile, con il breviario tra le mani ma con gli occhi fissi su di me.

Al termine della quarta o quinta orazione, successe quanto avevo temuto: notai il movimento del prete che chiuse il breviario e lo mise in una tasca della tonaca, quindi prese a slacciarne alcuni bottoni.

Proseguii a recitare la preghiera facendo finta di niente ma, quando mi fu più vicino, alzai gli occhi e vidi il suo lungo cazzo spuntare dalla fessura anteriore della veste talare.

Pose una mano dietro alla mia nuca e mi ci fece avvicinare la bocca. Abbassai le palpebre e mi rassegnai all’ennesimo stupro orale, durante il quale non mi aiutai usando le mani, per non apparire in nessun modo complice o partecipe a quell’atto che ritenevo indegno per un uomo di chiesa che, soprattutto, avrebbe dovuto essere il conforto e il rifugio alle mie sofferenze.

Dopo interminabili minuti, con le parole spezzate dagli ansimi di godimento, mi esortò: “Non sottrarti al tuo dovere di bere tutto il sacro nettare che stai per ricevere…”

Appena concluse la frase, la mia bocca si riempì con il suo seme che dovetti ingoiare.

Quando si fu completamente svuotato, estrasse il membro dalle mie labbra e lo asciugò con un fazzoletto che aveva recuperato da una tasca. Poi me lo passò con atteggiamento paterno.

Mi pulii la bocca e glielo restituii.

“Brava, Molly. Vedo che sei una devota fedele del Signore. Per oggi ti sei pienamente meritata l’assoluzione. Adesso puoi andare, ma ti aspetto domenica prossima alla stessa ora.”

Mi feci il segno della croce, mi alzai dall’inginocchiatoio e mi allontanai velocemente senza salutarlo.

Era ora di pranzo, perciò tornai mestamente alla locanda, dove trovai solo il lavapiatti e il cuoco che stava preparando i cibi che sarebbero stati serviti per la cena.

“Cosa vuoi mangiare, Molly?” mi domandò gentilmente, rimescolando il contenuto di uno dei pentoloni fumanti. “Ho preparato della carne. È abbastanza buona… Ci vuoi anche qualche patata lessa, insieme?”

“Fai tu, grazie.” risposi. Ero talmente avvilita che ben poco mi importava dei miei gusti in fatto di cibo. La mia unica ambizione era alleviare i crampi allo stomaco che, certamente, non erano provocati solo dall’appetito.

Consumato il pasto nel mio stanzino, non avendo altro da fare, mi misi a dormire, in attesa del servizio serale in sala e al dover nuovamente soggiacere alle voglie dei clienti nelle stanze.

 

Sebbene fosse domenica, gli avventori della locanda erano numerosi come quelli della sera precedente. Avevo sperato che, essendo giorno di festa, molti sarebbero rimasti a casa con le loro famiglie, ma mi sbagliai.

Il casino, le baruffe e gli strepiti riempivano nuovamente l’ambiente, la cui aria era anche intrisa degli odori provenienti dalla cucina e dal “materiale umano” presente, totalmente ignaro che esistessero igiene e pulizia. Eppure, alla maggior parte di essi faceva piacere trovarmi con la pelle profumata di sapone quando mi scopavano e affondavano i loro volti tra le mie tette. Non capisco come non riuscissero a comprendere che sarebbe stato lo stesso per me.

“Sono solamente delle bestie!” conclusi, cercando di dare una risposta plausibile che appagasse interrogativo.

Quando vidi alcuni ospiti salire verso le camere, mi aspettai che l’oste mi mandasse a soddisfarli, e così fu: “Ehi, Molly. Devi andare…”

“Si, lo so.” lo interruppi. Egli sorrise, sollevato dal fatto che avevo capito l’antifona ed ero entrata nel mio ruolo di cameriera-puttana.

“1, 2 e 4. La tre è ancora libera. In tutto sono sette… Un bel po’ di soldi per me e qualche extra per te! Ah, ah, ah…” e aggiunse: “Cerca di farteli velocemente, perché stasera c’è parecchia gente e, dopo, ho ancora bisogno di te in sala. Capito?”

“Ho capito.”

“E brava la nostra Molly!” concluse, congedandomi con una decisa manata sul culo.

Arrivai alla porta della 1, bussai ed entrai. L’occupante era solo, in piedi, davanti alla piccola finestra con i vetri sudici ed appannati.

Lo salutai rispettosamente: “Buonasera, signore.”

“Oh, ciao, bellezza!” esordì voltandosi. “Sei davvero bellissima con quei capelli che sembrano in fiamme. E che occhi da demonio hai… Mi sa che tu hai bisogno di essere punita per questo tuo aspetto peccaminoso…”

Fui spaventata dalle sue parole, ma restai immobile, in attesa degli imminenti sviluppi della situazione. Per tentare di smorzare il suo approccio di stampo religioso-superstizioso, dissi: “Vi sbagliate, signore. Sono stata in chiesa proprio questa mattina, mi sono confessata e il Vicario mi ha dato la piena assoluzione…”

“Non mi fido del Vicario, tanto meno della sua capacità di giudicare se uno è un buon cristiano o un figlio del diavolo. E tu mi sembri proprio appartenere a quest’ultima risma. Hai bisogno che sia io ad impartirti la mia punizione…”

Senza che avessi il tempo di reagire, mi fu addosso ed insieme rovinammo a terra. Lui si sollevò parzialmente appoggiandosi sul mio petto e mi strappò la camicia, liberando i miei seni.

“Lo dicevo io che sei una strega! Chissà quanti uomini hai ammaliato con queste tette spudorate.”

Mi assestò un ceffone. Con gli stinchi, mi trattenne le braccia incollate a terra, e la testa, spingendo il suo bacino contro il mio mento. Dalla giacca, estrasse un pezzo di corda, con la quale aveva già formato un cappio, e me la infilò fino al collo.

Terrorizzata, cercavo di divincolarmi. Battevo i piedi in terra e urlavo ma, dato il rumore che c’era nella sala sottostante, sicuramente nessuno avrebbe udito i miei richiami.

In un attimo di lucidità, mi venne spontaneo mordergli con forza le palle, data la loro posizione a me così favorevole. La mia azione ebbe il risultato di farlo saltare all’indietro con una velocità che nemmeno un grillo si sognerebbe.

“Maledetta puttanaaaaa!!! Lo dicevo io che eri un demoniooooo!!! Bastardaaaa!!!” urlò, cercando di riprendersi.

Scattai in piedi e tentai di raggiungere la porta. Lui mi afferrò per un braccio ed estrasse un coltello. Raccolsi tutte le mie forze e la mia disperazione, riuscii ad aprire la porta e a trascinarmelo dietro, fin sul corridoio soppalcato che sovrastava l’ambiente inferiore.

Urlai nuovamente a squarciagola, attirando l’attenzione di quanti stavano sotto.

Probabilmente, timoroso di essere scoperto, il mio aggressore lasciò repentinamente la presa del mio avambraccio. Non ebbi la presenza di spirito di cessare per tempo gli strattoni che davo per sfuggirgli. Così, il rinculo che ricevetti mi fiondò verso la balaustra.

La stessa forza che avevo messo per divincolarmi, mi catapultò oltre il parapetto, facendomi precipitare a peso morto.

Rovinai su uno dei tavoli sottostanti. L’impatto fu così repentino e violento che tutto ciò che stava sopra di esso, e che non rimase schiacciato sotto il mio corpo, volò per aria. Alcune persone sedute sulle panche accanto, dallo spavento, si ribaltarono a terra.

Per una volta in tutta la sua storia, nella sala gremita calò un silenzio totale e raggelato.

Un istante dopo l’impatto, vidi dall’alto il mio corpo spalmato sulla superficie ingombra di cibi e suppellettili. I miei capelli erano sparsi in un fulvo ventaglio che stava impregnandosi velocemente del sangue che mi sgorgava copioso dalla bocca e dalla tempia sinistra, mentre le mie braccia aperte sembravano abbracciare amorevolmente la solida superficie che mi aveva uccisa.

Trascorsero parecchie decine di secondi, prima che qualcuno rompesse l’immobilità della scena per avvicinarsi a me ed accertarsi se ero ancora viva. I miei occhi sbarrati sancirono senza alcun dubbio la mia dipartita.

In questo lasso di tempo, vidi i loro volti offuscarsi e diventarmi irriconoscibili, proprio come potei osservare su alcuni intervenuti al mio primo funerale. Ma qui, proprio tutti subirono lo stesso fenomeno, nessuno escluso.

Così, realizzai che ciò era dovuto al fatto che le loro erano anime perse, oppure erano esseri dalle sembianze umane ma senza un’anima, proprio come ebbe ad ipotizzare un mio professore universitario, sostenitore del teorema che non tutti gli esseri umani hanno un’anima e che molti animali, invece, ce l’hanno.

Uno degli astanti, con lo sguardo atterrito, si rivolse all’oste e gli domandò: “E, adesso, cosa si fa?”

Il padrone della locanda, senza togliere gli occhi dal mio cadavere, rispose freddamente: “Era una povera diavola… Ma non voglio problemi a casa mia. Qualcuno vada ad avvisare il prete: gli dica che è capitato un incidente e che serve benedire un morto. Intanto, portiamola velocemente al cimitero. La seppelliremo subito, senza troppo clamore.”

Due di loro si diressero svelti fuori dal locale, mentre altri tre o quattro presero il mio corpo, lo avvolsero in una tovaglia ed eseguirono le istruzioni dell’oste.

I miei colleghi si affrettarono a pulire tutto ciò che era coperto dal sangue e presero a spazzare da terra i cocci di bicchieri e piatti, e i rimasugli di cibo che contenevano.

La mia visione seguì i miei resti nel percorso verso il camposanto. Sotto una pioggia gelida e battente, al chiarore di alcuni lumi a petrolio, nel più remoto angolo fu scavata una fossa e vi fui gettata senza troppi riguardi.

Mentre il prete recitava alcune preghiere, alcuni sgherri si affrettarono a ricoprire lo scavo e a camuffare la terra smossa con della paglia. Ovviamente, non fu deposta una lapide, e nemmeno un semplice crocefisso.

Sulla via del ritorno, l’oste spiegò ad alcuni suoi clienti che “la poveretta” era orfana e che non aveva parenti o amici che sarebbero venuti a cercarla. Perciò, se nessuno avesse raccontato quanto successo, tutti si sarebbero dimenticati di Molly molto velocemente.

Tornato alla locanda, per risollevare gli animi, offrì da bere a tutti i presenti. Poco dopo, il prete, anch’egli con il viso offuscato, si unì alla cricca di assassini e conniventi.

In breve, l’atmosfera chiassosa e caotica tornò la stessa di sempre, proprio come se nulla fosse accaduto.

Tra tutto quel casino, riuscii a cogliere chiaramente una frase pronunciata dall’oste: “Tranquilli, domani arriverà una nuova ragazza che sostituirà Molly come cameriera e come puttana. Ci sarà da divertirsi per tutti! Ah, ah, ah…!”

Nonostante il distacco dalle cose materiali da cui era permeata la mia anima, e che avevo imparato a reputare normale per la mia condizione di trapassata, anche in quest’occasione non fui risparmiata da una forte indignazione.

Come di consueto, il mio spirito prese ad elevarsi velocemente al di sopra della scena, ma questa volta udii la voce di una giovane che mi ringraziava ripetutamente, riconoscente e felice di essere finalmente libera dal destino crudele di cui era stata vittima.

Ovviamente, la voce era quella dell’anima della quale avevo momentaneamente preso il posto nel corpo dell’infelice ragazza dai capelli colore del fuoco.

Volgendo lo sguardo al cielo, diventato repentinamente limpido e stellato, pensai: “Ci deve pur essere una giustizia in grado di punire quegli esseri aberranti e demoniaci…”

Non feci in tempo a concludere il pensiero che una saetta di potenza incredibile si abbatté con un fragore assordante sul fabbricato della locanda e, con la stessa velocità con cui era arrivata, lo ridusse in un cumulo di cenere fumante, mentre decine di voci agghiaccianti venivano inghiottite dalla terra dove sorgeva.

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