Il Biker - Pt 1

  • Scritto da Nightafter il 02/06/2020 - 15:07
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Il Biker - Pt.1

Erano arrivati con quelle grosse moto un fine mattina di metà luglio, non passarono di certo inosservati.

Improbabile che quella del Forte fosse una loro meta turistica, di certo erano solo di passaggio, diretti a qualche raduno di fanatici delle due ruote a motore, che si tenevano in giro per l'Europa e anche qui in Italia.

Faceva un caldo bestiale quel giorno: la stagione di mare e vacanze era partita alla grande.

La spiaggia di Forte dei Marmi traboccava di bagnanti: famiglie della buona borghesia milanese che si mescolavano ai turisti del nord Europa, dando vita a una variegata babele di lingue, tratti fisiognomici e fogge di vestiario, una moltitudine scesa a godersi il sole della stagione marittima nella doviziosa cornice versiliese, accomunati dalla solidità dei conti correnti bancari e dalla spocchia di sentirsi V.I.P.

Durante il giorno li trovavi a bivaccare all'interno di stabilimenti esclusivi, arrostendo, zuppi di olio solare, sugli arenili torridi: industrialotti, vip dello spettacolo, rampolli dell'alta borghesia e play boy rivieraschi, tipica fauna estiva versiliana, che dopo il tramonto si riversava nei locali alla moda, meta dalla dolce vita notturna.

Noi eravamo lì come ogni anno a trascorrere la stagione: ci ospitava, nel verde della pineta, una graziosa villetta appartenuta ai miei nonni fin dagli anni '50, lasciavamo alle spalle il caotico stress meneghino e l'afa sahariana che, a mezzogiorno, scioglieva l'asfalto sul corso Buenos Aires.

Erano in una dozzina di bikers: montavano rombanti BSA e Harley Davidson Sportster Evolution, quei modelli "choppers" con lunghe forcelle sulla ruota anteriore, celebrate dal film Easy Rider e ancor più dalle immagini dei mitici Hell's Angels, le gang di bikers nazisti americani.

A quelli si ispiravano, anche se questi erano europei, avevano grandi aquile o effigi di teschi, stampate sulla schiena di giubbotti zeppi di borchie metalliche, indossati a dispetto del caldo africano della giornata.

Ovvio che non passassero inosservati, non se ne vedevano molti conciati a quel modo girare per le strade del Forte: uno dei luoghi di vacanza con la maggior puzza sotto al naso: a richiamare l'attenzione fu il fragore delle moto annunciante il loro arrivo e subito dopo l'abbigliamento eccentrico. Indossavano pantaloni sdruciti in pelle nera o jeans stinti e sfrangiati al fondo, avevano T shirt e camicie chambray smanicate che, verosimilmente, non conoscevano un bucato da mesi, portavano inoltre, collanine d'osso o catene con croci celtiche, esibendo, su braccia nerborute, tatuaggi a motivo tribale che gli davano un tono selvaggio e pericoloso.

Capelli sciolti alle spalle o rasati a zero, con visi truci offerti al vento e sguardi, celati da occhiali a specchio fissi alla strada, facevano il resto: andavano di fretta, con l'aria sprezzante di chi se ne frega di tutto, e in particolare delle buone maniere.

Quando passarono a novanta all'ora sul viale delle Repubblica, lo spostamento d'aria mi investi le spalle, scompigliandomi i capelli.

Masticavo un chewingum al mentolo, sudando l'anima seduta su una panchina della piazza Navari, nel tentativo di trovare refrigerio all'ombra di un palmizio, poco più avanti iniziavano le balaustre bianche del Pontile del Forte.

Ascoltavo a occhi chiusi, l'ultimo album dei Duran Duran, negli auricolari del portatile: il ruggito rabbioso delle marmitte coprì i decibel del mio audiolettore e me li fece riaprire, li vidi sfilare come una squadriglia di caccia in formazione da combattimento, le cromature lucide dei motocicli scintillavano come diamanti alla luce di fine mattina.

Erano coreografici in quella rumorosa sarabanda: filavano rapidi in cacofonia tonante di pistoni impazziti che faceva vibrare il suolo.

Sulla passeggiata o dai dehors affacciati sul lungomare, sguardi ostili o allarmati di bagnanti, li seguivano con palpabile ripugnanza: al contrario di loro, a me non ispiravano timore né mettevano disagio, anzi, quell'aria trasgressiva e risoluta mi smuoveva un certo formicolio interiore, vieppiù nelle zone basse dell'inguine.

Così restai per un poco a osservarli, dietro i grandi occhiali da sole "Donna Karan", mentre il nastro nel portatile sciorinava, come un rosario inascoltato, gli ultimi brani del mio gruppo preferito del momento.

Il nostro stabilimento balneare, con due cabine prenotate per tutta la stagione, era a pochi passi da lì: ma faceva troppo caldo, non mi andava di stare in mezzo a quel carnaio, annegata nella puzza di sudore e Ambra Solare, a vedermi ronzare intorno gli sguardi unti di agiati borghesi dai ventri prominenti e la calvizie precoce, interessati a ciò che il mio minuscolo bikini offriva ai loro occhi, oppure stesi con le azzimate consorti o le giovani amanti a friggere, come moscardini in padella, sulla sabbia ardente.

Quei bikers, visti così parevano seriamente cattivi: avevo letto che sovente appartenevano a organismi criminali dediti allo spaccio di droga e allo sfruttamento della prostituzione, amavano alcool e metanfetamine, la violenza e le maniere spicce facevano parte del lororo codice d'onore, si scontravano spesso tra gruppi antagonisti, dando vita a risse sanguinose.

La benzina bruciata lasciò nell'aria una nube fetida di idrocarburi, sparirono alla vista oltre il grande curvone al fondo della strada: il rombo dei motori si stemperò in punto lontano, poi prese a rifarsi vicino: dovevano averci ripensato e fatta un'inversione di marcia: stavano tornando.

Riapparvero infatti di lì a poco, per radunarsi davanti a un piccolo snack bar, a circa una trentina di metri da me, erano evidentemente intenzionati a fare una piccola sosta, prima di riprendre il cammino: smontarono di sella e affiancarono le moto lungo un tratto di marciapiede, con un babele chiassosa di lingue diverse, si riversarono nel dehors del locale circoscritto da alte siepi di ibisco, si spartirono i tavolini presenti e ci fu un rapido fuggi-fuggi dei clienti intimoriti.

Ero divertita e un po' affascinata da quell'aura di vitalistica energia che li accompagnava, il caldo era sensibilmente cresciuto e l'astina del mercurio avrebbe toccato i quaranta gradi prima di mezzogiorno: avvertivo la necessità di qualcosa di fresco, decisi che sarei andata a prendermi un ghiacciolo in quel piccolo bar affollato di ruvidi bikers.

Non mi dispiaceva, unendo l'utile al dilettevole, di dare un'occhiata ravvicinata alla ruspante gang su due ruote: cacciai armi e bagali nella sacca da spiaggia e attraversai la strada dirigendomi verso il locale.

Portavo un minuto bikini, sotto un corto prendisole di garza nero, avevo la pelle di un gradevole bronzo-dorato, solo pochi centimetri di epidermide coperta avevano mantenuto il colore naturale, mi sentivo in grande spolvero, simile a una creola da schianto: la conferma la leggevo negli occhi di tutti i maschi che mi incrociavano in spiaggia e fuori.

Giunta sul posto, percorsi il breve tratto che portava dal dehors all'interno dell'esercizio sui miei zoccoli dal tacco vertiginoso: avanzai, tra tavolini e dondoli, ondeggiando ad arte i glutei, con un incedere da danzatrice carioca, inutile negare che quell'esibizione mirava a richiamare l'attenzione degli eccentrici avventori.

Che fossi riuscita a farlo lo testimoniò il silenzio calato a interrompere le loro conversazioni: gli occhi si erano polarizzati sulla solidità mio lato B o nel soppesare il seducente volume delle mie tette, al bancone del bar presi il mio ghiacciolo e ordinai dell'acqua tonica con limone e molto ghiaccio.

Mi sistemai su un dondolo libero in fronte al gruppo di quei maschi e passai, con una rapida occhiata, in rassegna la variegata fauna presente, Il cameriere aveva portato la mia ordinazione e a loro una montagna di panini assortiti con grossi boccali di birra gelata che presero a consumare con voracità, dall'interno avevo recuperato il quotidiano del giorno e mentre degustavo il mio stick, iniziai a scorrere le ultime notizie.

Il ghiacciolo aveva forma fallica, era zuccherino e rinfrescante, presi a succhiarlo senza fretta lasciando che si sciogliere poco alla volta fra le labbra: ne lambivo la punta gelida con piccoli colpi di lingua e labbra dischiuse, volutamente non guardavo nessuno, ostentando una assoluta indifferenza, era il modo migliore di catturare l'attenzione.

La passione con cui assaporavo il ghiacciolo, doveva darmi un'espressione provocante, quel lavorio di labbra e lingua suggeriva una scena di sesso orale e rallentava il loro pasto, a ogni mio piccolo risucchio diversi restavano col morso a metà o col bicchiere sospeso a mezz'aria.

Forse avrei causato qualche difficoltà di digestione a più di uno, quel pomeriggio, la cosa mi divertiva molto. Non sapevo dire perché amassi comportarmi a quel modo: di certo avevo una natura narcisista e a provavo piacere nel cacciarmi in esperienze sconvenienti, poi, come diceva Marco il mio ragazzo "ero anche un po' troietta" e su questo non ci pioveva.

Possedere la capacità di catalizzare l'interesse di uomini sconosciuti, gratificava la mia autostima, era eccitante giocare col loro desiderio, mi sentivo un gatto a un convegno di topi e la cosa mi procurava un brivido di voluttà.

La siepe che delimitava il dehors creava una barriera visiva con l'esterno, nessuno dalla strada poteva vedere cosa avveniva al suo interno: era come trovarsi nel chiuso di un piccolo teatro, dove io ero l'attrazione dello spettacolo e loro il pubblico.

Decisi di calcare la mano: eccitarli a mio piacimentoi, mi procurava una vertigine peccaminosa, allora, isolando la mente, mi estraniai da quanto avevo intorno: nella fantasia il ghiacciolo diveniva un sesso maschile, li avrei fatti impazzire.

Feci scorrere, con studiata lentezza la lingua, giù fino all'innesto del legnetto nella base, poi in senso inverso, fino all'apice: lasciavo scivolare le labbra sull'asta gelida e ne surgevo il nettare, infine lo risucchiavo interamente all'interno della bocca, il succo mi sbavava e colava sul mento: lo raccoglievo con le dita e le riportavo alle labbra. Come una bimba golosa, mi leccavo le dita appiccicose.

Un vero pompino non mi sarebbe riuscito meglio e ne ero consapevole.

Sollevai lo sguardo per vedere l'effetto sortito sul mio pubblico, tolsi anche gli occhiali affinché, nei miei occhi, fosse leggibile la maliziosa provocazione che li illuminava.

Gli sguardi degli uomini erano tutti per me: apparivano tesi, di certo anche che i sessi, nelle braghe aderenti stavano mettendo a dura prova le zip che li chiudevano, immaginavo goccioline, candide come lacrime, nascere da quei turgori e bagnare di umori gli slip.

Se non fossimo stati in un luogo pubblico, non si sarebbero limitati a guardare, avrebbero certamente estratto quei sessi rigonfi e iniziato a toccarsi: le loro mani si sarebbero impossessate dei seni per tastarne la consistenza e mi avrebbero strizzato in modo estenuante i capezzoli, eccitati dai miei sospiri lascivi.

Mi avrebbero divaricato le cosce, per cercare la morbidezza calda del mio sesso, le dita si sarebbero introdotte a frugare ansiose i miei orifizi, lingue e bocche avrebbero leccato, insalivato e morso avide la carne: mi avrebbero violentata in gruppo.

Quel pensiero mi stava bagnando di secrezioni.

Mie ccitava pensarmi in balia della loro voglia, soddisfare le loro pulsioni più animalesche, con i sensi sconvolti da afrorii e liquidi intimi, in un groviglio orgiastico di corpi sudati.

In quel delirio carnale, mi colpirono due occhi algidi: stava seduto al centro del gruppo, occupava da solo un dondolo, l'evidente privilegio di un leader, dal modo sottomesso con cui gli altri gli si rivolgevano, compresi che si trattava del capo della gang: un'eleganza altera ed essenziale nei gesti, lo distingueva dai suoi uomini.

Era biondo, scuro di sole, con una barba rasa, occhi grigi, freddi, da gatto, un viso maschio, dai lineamenti marcati ma con un che di nobile, una vecchia cicatrice segnava la guancia destra, il segno più chiaro andava dallo zigomo alla base della mascella: certamente un fendente di coltello guadagnato in qualche rissa.

Non parlava molto, non ne aveva bisogno, aveva gesti misurati e ne faceva grande economia, ci fu un momento, durante la mia esibizione, in cui il vociare e gli apprezzamenti grevi si erano fatti più rumorosi: gli bastò un gesto della mano, per ottenere il silenzio.

Incrociammo gli sguardi, era imperturbabile, fossi pur stata nuda su quel dondolo, non avrebbe mosso ciglio.

Se gli piacevo non lo mostrava in alcuna maniera, la cosa mi indispettì come un affronto. Era irritante. Per quale motivo, quel pesce freddo con la faccia cattiva, sembrava ignorarmi? Mi riteneva solo una insignificante puttanella in calore, alla ricerca di cazzi?

Chi credeva di essere quella specie di delinquente motorizzato? Non aveva ormoni attivi, o era semplicemente gay? Sentivo il pungolo di quella indifferenza. Giurai che lo avrei scosso, quello sguardo distaccato doveva vacillare.

Il ghiacciolo si era ormai ridotto al bastoncino, raccolsi due cubetti di ghiaccio dal bicchiere con l'acqua tonica: ero accaldata, sbottonai interamente il prendisole, iniziai a far correre le dita col ghiaccio dall'orecchio all'incavo tra i seni.

Dai minuscoli triangoli del reggiseno, le mie tette, sorgevano come due colline ambrate: a tratti immergevo i cubetti di ghiaccio all'interno delle coppe e nello scostare la stoffa scoprivo la pelle candida che il sole non aveva raggiunto, a quel contatto il freddo faceva ergere i capezzoli, che si proponevano sfacciati, tesando il sottile tessuto del costume.

Gli occhi degli uomini gridavano la loro voglia: percepivo il loro desiderio di strusciare i sessi sui miei capezzoli duri, di farmeli succhiare, per poi inondarmi di sperma dalle tette al viso. Già mi vedevo in ginocchio, con loro intorno, intenti a masturbarsi sfiorandomi il volto, porgendomi i cazzi alle labbra perché, a turno, li accogliessi in bocca, li riempissi di bave dense sparse con la lingua.

Stimolarli così, portarli all'estremo, pronti a esplodre e ricoprirmi di sborra calda: come nella pratica che i giapponesi chiamano bukkake.
Allargai le cosce in una posa impudica: il perizoma del bikini, mostrava il rilievo carnoso della mia sinfisi pubica, il tessuto nell'insenatura delle grandi labbra era divenuto più scuro, mi sentivo umida e appiccicosa per i liquidi lo avevano inzuppato.

Fossi stata priva di mutandine, il succo avrebbe iniziato a colarmi lungo l'interno delle cosce.

Portai una mano al seno e attraverso la stoffa strizzai un capezzolo, con l'altra strinsi, per compattarlo, il tessuto elsticizzato del perizoma: ne feci una lista stretta che tirai verso l'alto.

Le grandi labbra, con piccoli ciuffetti di pelo bruno, sbordavano divise nel mezzo da quella stringa morbida e cedevole.

Iniziai a titrare la stoffa verso l'alto per farla strofinare sul clitoride, turgido come un minuscolo pene eretto, il mio succo prese a spandersi come burro fuso sulla superficie bollente della vulva.

Mi sentivo porca: mi stavo slabbrando la figa davanti a una dozzina di uomini, non avrei creduto d'essere capace di tanta troiaggine.

Cercai con lo sguardo la mia preda: trovai i suoi occhi glaciali: mi guardava con sufficienza, solo un leggero sorriso gli aveva increspato le labbra, nulla di quanto fatto aveva scalfito la corazza di indifferenza di quel teppista sfregiato.

Con una luce divertita sul volto, portò alle labbra il boccale di birra e ne bevve un lungo sorso: sorridendo con fare canzonatorio, lo levò nella mia direzione a mo' di bridisi.

Era un congedo: stabiliva che per lui e i suoi uomini lo spettacolo era terminato.

Si voltò e riprese a conversare congli altri, un ordine muto che tutti compresero: infatti ripresero a cibarsi o a far casino tra loro, come se io non esistessi.

 

Fu come se, nel corso di una proiezione cinematografica, la pellicola si fosse spezzata di colpo, lasciando lo schermo vuoto e bianco.

Fu come ricevere l'umiliazione di uno schiaffo dato al volto con disprezzo.

Mortificata e stizzita mi alzai, entrai nel bar e raggiunsi le toilette delle donne, dovevo rinfrescarmi e fare pipì.

Furiosa, mi infilai nella prima libera: sfilai le mutandine macchiate del perizoma e le appesi al gancio posto sul retro della porta, insiema alla sacca da spiaggia.

Sedetti a cosce larghe sulla tazza del wc, mi urgeva la pipì ma la trattenni: prima dovevo placare quella smania che mi dava fitte dolorose al sesso, dovevo godere, ero infoiata.

Serrai gli occhi e immersi la mano nella carne madida, presi il clitoride dolente e lo strinsi fra le dita iniziando un lento massaggio rotatorio, ero eccitata allo spasimo e volevo godere prolungandone l'attesa.

Al momento buono, avrei infilato quattro dita nella figa dandomi affondi violenti:

sarei venuta squirtando ciprigno e schizzando la pipì sulla mano.

Mi mordevo le labbra e mi strizzavo i capezzoli, totalmente immersa nella ricerca dell'orgasmo: sarebbe stato un lungo e struggente, alla faccia di quel selvaggio motorizzato.

Nella mente immaginavo il suo cazzo duro sbattere con vigore le mucose liquide del mio sesso, la sua lingua e i denti candidi di belva affondati nelle mie intimità a farne scempio.

Di colpo, con un rumore sordo, la porta del bagno si aprì e spalancai gli occhi: rimasi

annichilia e muta per la sorpresa: con un cenno secco della mano mi fece tacere, prima che emettessi un solo gemito.

Avevo davanti il biondo capo della gang.

(Continua)

Proprio un racconto eccitante ma elegante. Aspettiamo il seguito...

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