Il clistere

  • Scritto da Giovannaesse il 04/02/2024 - 15:40
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Uno

Non è facile per me ricordare questa storia.

Ogni volta che la mente ci passa sopra, mi pare di rasentare un burrone oscuro e misterioso; un pericoloso punto senza ritorno da evitare accuratamente; un posto della mente che ancora mi terrorizza e m’inquieta.

Non ho mai avuto paura di lui, anzi, credo di aver provato solo pietà, soprattutto oggi se ripenso al passato ed alla sua mente ingarbugliata. La paura che provo veramente (adesso come allora) è legata solo a me stessa.

Di quei giorni lontani ricordo che ogni volta che tornavo a casa, disfatta, dolorante, infelice, provavo solo una gran paura di me e per me.

Paura per ciò che avevo acconsentito di fare e di subire; paura di ciò che ero ancora disposta ad accettare…

Temevo la prossima volta! Temevo potesse essere l’ultima, quella fatale: e avevo solo 19 anni.

La notte, carezzandomi i glutei quasi sempre martoriati o i seni macchiati dalle emorragie, piangevo sul mio destino mentre, intimamente, godevo del male che ero stata capace di subire. Mi sentivo un’eroina, pur avendo terrore della prossima prova. Quando lui chiamava, era come essere invitata alla “roulette russa”: una sfida.

Ogni volta pensavo che quello sarebbe potuto essere l’incontro definitivo.

“Lui” era il professore cui mia madre m’aveva affidato per le ripetizioni di latino e greco. Dal di fuori, aveva una famiglia all’antica, senza figli. Sua moglie era una pianista ma era muta e non usciva mai di casa. All’apparenza erano persone socievoli, affabili, solo lievemente avvezze alla misantropia.

Ma quando si chiudeva la porta, il terrore e la soggezione della moglie nei suoi confronti erano palpabili. La nostra storia cominciò proprio davanti alla signora.

– Non ci siamo, Cinzia! – disse lui, eravamo seduti in cucina.

– Se vuoi imparare a fissare gli argomenti, alla fine, credo che tu abbia bisogno di assoggettarti a un po’ di disciplina: te la sentiresti? –

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Quella sera tornai a casa frastornata e confusa.

Quella parola strana mi ronzava per la testa: disciplina! Non ero nemmeno sicura di conoscerne appieno il significato, almeno quello pratico. Ero cresciuta solo con mia madre, mio padre l’ho visto poche volte: purtroppo era diventato alcolizzato e aveva fatto una brutta fine. Di lui ricordo solo che, ogni volta che lo vedevo, piangeva e puzzava di vino. In cuor mio gli volevo anche bene ma mi vergognavo veramente di lui: pensavo sempre che sarebbe stato meglio se fosse sparito. E così fu.

Cercai sul vocabolario (non avevo voluto chiedere a Enrico, il ragazzo che frequentavo allora). Lui ed io eravamo poco più che amici e mia madre non era contraria, anzi. Si sentiva più sicura a sapermi in compagnia perchè lei lavorava tutto il santo giorno in un negozio.

Carlo, il professore, non tornò sull’argomento ma aveva sempre da ridire sui miei scarsi progressi.

Intanto, come un seme cattivo, quella parola, una volta ben chiarita, mi aveva offesa dentro.

Disciplina… a me?

E chi cazzo sei tu?

Io sono cresciuta da sola e bene. Senza un padre, senza guida ho imparato a cavarmela. Badavo alla casa come un’adulta, forse meglio, e badavo anche a me stesse.

Ora, arriva lui e mi vuole insegnare la disciplina!

“Piuttosto dillo che mi rendi tutto sempre più difficile perché sei un vecchio meschino, e che tua moglie è una mentecatta inutile.

Dillo che sbavi vedendoti per casa una ragazzina come me. Carne giovane, profumata, tenera… eh; vecchio porco?”

Ecco cosa mi passava per la testa quando andavo da Carlo, due volte alla settimana.

Lo vedevo e mi faceva pena: cinquantenne, pancetta, bassino.

Le mani mollicce di chi non ha mai lavorato ed un pantalone grigio, insignificante come lui.

Però i suoi occhi, che non mi staccava mai di dosso, mi scavavano dentro profondamente. Mi analizzavano dalla testa ai piedi.

Ero molto giovane, ma non ero stupida.

Con la scusa di provocare il porco (era lampante che Carlo impazzisse per me), mi invischiavo in una pericolosa sceneggiata tutte le volta che andavo da lui.

Portavo sempre gonna e collant (le calze costavano troppo) e sempre camicette scollate. Non avevo un seno strepitoso ma ero una ragazzina e, due belle mele alte e sode, colpivano sicuramente un uomo, se premevano, decisamente, nella camicetta stretta.

E se poi sotto non indossavo niente: beh, allora…

Nemmeno gli slip sotto i collant; li prendevo apposta color carne, per non mettere le mutandine e farlo eccitare quando mi spiava mentre stavo seduta.

Accavallavo le gambe; mi abbassavo per prendere qualcosa; sedevo su un pouf a cosce spalancate.

Volevo vederlo cuocere nella sua impossibilità di ottenere qualcosa da me. Lui guardava, anche spudoratamente, nonostante la moglie fosse spesso presente e visibilmente a disagio.

Carlo osservava e teneva sempre sul viso un sorrisetto impenetrabile, anche quando mi redarguiva.

Anche quel maledetto pomeriggio in cui ero talmente stizzita da uno stupido errore che ci litigai apertamente. Purtroppo più era sciocco il mio sbaglio e più lui mi mortificava, rincarando la dose. Quella fu la prima volta che accettai la sua sfida:

– Ok, sono un’idiota, va bene? – dissi piangendo di rabbia – Allora proviamo col tuo metodo, fammi vedere cosa ottieni. Dove puoi arrivare! Una cosa è certa: se pensi di piegarmi sbagli di grosso! –

Come se niente fosse, Carlo aspettò che mi fossi calmata, mentre la moglie, dalla cucina, lanciava occhiate di fuoco.

– Te la senti davvero, Cinzia? – disse, alzandosi. Poi mi venne vicino; iniziò a carezzarmi i capelli con molta dolcezza. Io accennai un sì con la testa, scontrosa.

– Allora, cara, per prima cosa devi abituarti ad avermi tutto dentro di te. –

Lasciandomi completamente allibita, si sbottonò i calzoni e cominciò a masturbare il pene a pochi millimetri dalla mia bocca. Ero completamente confusa, mentre sua moglie, dalla cucina, guardava rassegnata.

Tre

Tornai a casa abbastanza sconvolta. Ripensando all’accaduto mi sembrava di avere sognato. Il vecchio professore, in pochi minuti, mi aveva fatto ciò che il mio ragazzo nemmeno sperava di poter ottenere.

Come se fosse la cosa più naturale del mondo aveva tirato fuori dalla lampo il cazzo, già abbastanza gonfio e me lo aveva avvicinato talmente alla faccia, da farmene sentire l’odore pungente.

Non ero preparata, non ero eccitata; ero solo sorpresa: rimasi immobile!

Avevo parlato di sesso orale con le amiche, ovvio, ma non lo avevo mai praticato e nemmeno credo che quello che accadde si potesse definire un vero pompino.

Carlo, cogli occhi socchiusi si masturbò per alcuni minuti, silenziosamente, mentre sua moglie assisteva impietrita dalla cucina, incapace di ribellarsi.

Non riusciva a non guardare. Io, invece, mentre passavano quegli imbarazzanti minuti, provavo vergogna e cercavo di non guardare il pene di suo marito.

Il silenzio nella stanza aveva qualcosa di metafisico… eravamo tutti e tre così vicini e allo stesso tempo perduti nei meandri del nostri pensieri.

Non sapendo cosa fare né come intervenire, attesi che quell’atmosfera surreale si spezzasse. Poco dopo, il professore si alzò un poco sulle punte dei piedi: tremava leggermente. Il collo teso, il pene proteso verso me. Senza esitare mi penetrò le labbra docili e il suo cazzo mi entrò in bocca fino a raggiungermi la lingua, col glande cado. Un momento dopo una crema salina mi aveva riempito tutta la bocca:

– Bevi tutto, ingoiami! – disse tra i denti – Impara ad essere mia, a sentirmi dentro… – e spingeva stantuffando fino in gola.

Dopo tossii e cercai di sputare lo sperma, istintivamente, ma lui ...

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Bravissimo, Non sono mai stato interessato nel génere SM e non so perché ho deciso di leggere questa storia, ma mi e piaciuta tantísimo. Dovresti continuarla, con forse un raporto con un sádico che conosce sul lavoro o via’l marito...
Grazie di cuore. Sto scrivendo un video romanzo sulla vita e le sottomissioni di una donna sicula: La schiava Elle.

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