“Sulla spiaggia vediamo solo le onde, mai l’oceano; in realtà esiste solo l’oceano, le onde sono superficiali”. Osho
Uno
Non è facile per me ricordare questa storia.
Ogni volta che la mente ci passa sopra, mi pare di rasentare un burrone oscuro e misterioso; un pericoloso punto senza ritorno da evitare accuratamente; un posto della mente che ancora mi terrorizza e m’inquieta.
Non ho mai avuto paura di lui, anzi, credo di aver provato solo pietà, soprattutto oggi se ripenso al passato ed alla sua mente ingarbugliata. La paura che provo veramente (adesso come allora) è legata solo a me stessa.
Di quei giorni lontani ricordo che ogni volta che tornavo a casa, disfatta, dolorante, infelice, provavo solo una gran paura di me e per me.
Paura per ciò che avevo acconsentito di fare e di subire; paura di ciò che ero ancora disposta ad accettare…
Temevo la prossima volta! Temevo potesse essere l’ultima, quella fatale: e avevo solo 19 anni.
La notte, carezzandomi i glutei quasi sempre martoriati o i seni macchiati dalle emorragie, piangevo sul mio destino mentre, intimamente, godevo del male che ero stata capace di subire. Mi sentivo un’eroina, pur avendo terrore della prossima prova. Quando lui chiamava, era come essere invitata alla “roulette russa”: una sfida.
Ogni volta pensavo che quello sarebbe potuto essere l’incontro definitivo.
“Lui” era il professore cui mia madre m’aveva affidato per le ripetizioni di latino e greco. Dal di fuori, aveva una famiglia all’antica, senza figli. Sua moglie era una pianista ma era muta e non usciva mai di casa. All’apparenza erano persone socievoli, affabili, solo lievemente avvezze alla misantropia.
Ma quando si chiudeva la porta, il terrore e la soggezione della moglie nei suoi confronti erano palpabili. La nostra storia cominciò proprio davanti alla signora.
– Non ci siamo, Cinzia! – disse lui, eravamo seduti in cucina.
– Se vuoi imparare a fissare gli argomenti, alla fine, credo che tu abbia bisogno di assoggettarti a un po’ di disciplina: te la sentiresti? –
Due
Quella sera tornai a casa frastornata e confusa.
Quella parola strana mi ronzava per la testa: disciplina! Non ero nemmeno sicura di conoscerne appieno il significato, almeno quello pratico. Ero cresciuta solo con mia madre, mio padre l’ho visto poche volte: purtroppo era diventato alcolizzato e aveva fatto una brutta fine. Di lui ricordo solo che, ogni volta che lo vedevo, piangeva e puzzava di vino. In cuor mio gli volevo anche bene ma mi vergognavo veramente di lui: pensavo sempre che sarebbe stato meglio se fosse sparito. E così fu.
Cercai sul vocabolario (non avevo voluto chiedere a Enrico, il ragazzo che frequentavo allora). Lui ed io eravamo poco più che amici e mia madre non era contraria, anzi. Si sentiva più sicura a sapermi in compagnia perchè lei lavorava tutto il santo giorno in un negozio.
Carlo, il professore, non tornò sull’argomento ma aveva sempre da ridire sui miei scarsi progressi.
Intanto, come un seme cattivo, quella parola, una volta ben chiarita, mi aveva offesa dentro.
Disciplina… a me?
E chi cazzo sei tu?
Io sono cresciuta da sola e bene. Senza un padre, senza guida ho imparato a cavarmela. Badavo alla casa come un’adulta, forse meglio, e badavo anche a me stesse.
Ora, arriva lui e mi vuole insegnare la disciplina!
“Piuttosto dillo che mi rendi tutto sempre più difficile perché sei un vecchio meschino, e che tua moglie è una mentecatta inutile.
Dillo che sbavi vedendoti per casa una ragazzina come me. Carne giovane, profumata, tenera… eh; vecchio porco?”
Ecco cosa mi passava per la testa quando andavo da Carlo, due volte alla settimana.
Lo vedevo e mi faceva pena: cinquantenne, pancetta, bassino.
Le mani mollicce di chi non ha mai lavorato ed un pantalone grigio, insignificante come lui.
Però i suoi occhi, che non mi staccava mai di dosso, mi scavavano dentro profondamente. Mi analizzavano dalla testa ai piedi.
Ero molto giovane, ma non ero stupida.
Con la scusa di provocare il porco (era lampante che Carlo impazzisse per me), mi invischiavo in una pericolosa sceneggiata tutte le volta che andavo da lui.
Portavo sempre gonna e collant (le calze costavano troppo) e sempre camicette scollate. Non avevo un seno strepitoso ma ero una ragazzina e, due belle mele alte e sode, colpivano sicuramente un uomo, se premevano, decisamente, nella camicetta stretta.
E se poi sotto non indossavo niente: beh, allora…
Nemmeno gli slip sotto i collant; li prendevo apposta color carne, per non mettere le mutandine e farlo eccitare quando mi spiava mentre stavo seduta.
Accavallavo le gambe; mi abbassavo per prendere qualcosa; sedevo su un pouf a cosce spalancate.
Volevo vederlo cuocere nella sua impossibilità di ottenere qualcosa da me. Lui guardava, anche spudoratamente, nonostante la moglie fosse spesso presente e visibilmente a disagio.
Carlo osservava e teneva sempre sul viso un sorrisetto impenetrabile, anche quando mi redarguiva.
Anche quel maledetto pomeriggio in cui ero talmente stizzita da uno stupido errore che ci litigai apertamente. Purtroppo più era sciocco il mio sbaglio e più lui mi mortificava, rincarando la dose. Quella fu la prima volta che accettai la sua sfida:
– Ok, sono un’idiota, va bene? – dissi piangendo di rabbia – Allora proviamo col tuo metodo, fammi vedere cosa ottieni. Dove puoi arrivare! Una cosa è certa: se pensi di piegarmi sbagli di grosso! –
Come se niente fosse, Carlo aspettò che mi fossi calmata, mentre la moglie, dalla cucina, lanciava occhiate di fuoco.
– Te la senti davvero, Cinzia? – disse, alzandosi. Poi mi venne vicino; iniziò a carezzarmi i capelli con molta dolcezza. Io accennai un sì con la testa, scontrosa.
– Allora, cara, per prima cosa devi abituarti ad avermi tutto dentro di te. –
Lasciandomi completamente allibita, si sbottonò i calzoni e cominciò a masturbare il pene a pochi millimetri dalla mia bocca. Ero completamente confusa, mentre sua moglie, dalla cucina, guardava rassegnata.
Tre
Tornai a casa abbastanza sconvolta. Ripensando all’accaduto mi sembrava di avere sognato. Il vecchio professore, in pochi minuti, mi aveva fatto ciò che il mio ragazzo nemmeno sperava di poter ottenere.
Come se fosse la cosa più naturale del mondo aveva tirato fuori dalla lampo il cazzo, già abbastanza gonfio e me lo aveva avvicinato talmente alla faccia, da farmene sentire l’odore pungente.
Non ero preparata, non ero eccitata; ero solo sorpresa: rimasi immobile!
Avevo parlato di sesso orale con le amiche, ovvio, ma non lo avevo mai praticato e nemmeno credo che quello che accadde si potesse definire un vero pompino.
Carlo, cogli occhi socchiusi si masturbò per alcuni minuti, silenziosamente, mentre sua moglie assisteva impietrita dalla cucina, incapace di ribellarsi.
Non riusciva a non guardare. Io, invece, mentre passavano quegli imbarazzanti minuti, provavo vergogna e cercavo di non guardare il pene di suo marito.
Il silenzio nella stanza aveva qualcosa di metafisico… eravamo tutti e tre così vicini e allo stesso tempo perduti nei meandri del nostri pensieri.
Non sapendo cosa fare né come intervenire, attesi che quell’atmosfera surreale si spezzasse. Poco dopo, il professore si alzò un poco sulle punte dei piedi: tremava leggermente. Il collo teso, il pene proteso verso me. Senza esitare mi penetrò le labbra docili e il suo cazzo mi entrò in bocca fino a raggiungermi la lingua, col glande cado. Un momento dopo una crema salina mi aveva riempito tutta la bocca:
– Bevi tutto, ingoiami! – disse tra i denti – Impara ad essere mia, a sentirmi dentro… – e spingeva stantuffando fino in gola.
Dopo tossii e cercai di sputare lo sperma, istintivamente, ma lui mi tappò la bocca con la mano.
A casa mi sciacquai varie volte ma il suo odore persisteva nelle mie narici; mentre cenavo sapevo perfettamente di avere il suo seme nella pancia.
Mia madre non si accorse di nulla.
Passai il giorno successivo in uno stato confusionale.
Deciso: avrei parlato con mamma. Di mattina no, aveva sempre fretta, le avrei parlato la sera. Bastava cercare le parole giuste, magari una scusa plausibile.
Ma la sera non dissi niente!
Saltai la lezione successiva, però tornai in quella casa la settimana dopo.
Provavo disgusto per quella situazione ma provavo anche il desiderio di rotolarmici dentro: una voglia di cedere, di sporcarmi che non saprei spiegare.
Mi mostrai spavalda, lo sfidai e mortificai la moglie, che non aveva fatto niente per difendermi. Facemmo lezione come se niente fosse poi, verso le sei, lui si rilassò sulla sedia e tolse gli occhiali, massaggiandosi il naso con le dita.
– Allora Cinzia, la settimana scorsa non sei venuta, vero? – disse banalmente.
– Certo – risposi scostante – dovevo pensare, decidere… – lui mi desiderava e io ero certa di tenerlo in pugno!
– E non sai che si avvisa? O pensi che la gente debba stare ai tuoi capricci? – restai di stucco. Il professore invece di vergognarsi, mi sgridava.
– Adesso alzati e poggia le mani su questa sedia! –
Pensai: “Questo è proprio matto” eppure, con spavalderia ma con le gambe molli, non mi opposi e, lentamente, voltandogli le spalle e sbuffando, obbedii.
– Alzati quella gonna ridicola sopra il culo e infilala nei collant! –
Con la morte nel cuore e tanta rabbia, lo feci; quella strana impotenza e la mia mancanza di volontà mi fecero lacrimare.
Con una canna sottile, per la prima volta in vita mia, ricevetti dei colpi sul culo. Quaranta nerbate. Le prime venti con le calze ma senza mutandine, le altre sul sedere nudo.
Lui colpiva sempre nello stesso posto, massacrandomi, finché il mio culo divenne rosso e poi blu.
Mi costrinse a contare le botte che mi dava e dopo mi fece inginocchiare.
Ancora una volta me lo mise in bocca ed arrivò tutto dentro di me. Stavolta però, succhiai tutto con avidità. Ero perduta!
Le gambe mi reggevano a malapena.
La mattina, i segni sulle natiche si erano sbiaditi; poi svanirono e, dopo tre giorni, sentii il bisogno di prenderne ancora.
Da quel momento diventai un oggetto nelle mani di Carlo.
Sua moglie, ora collaborava: mi aiutava a prendere le posizioni più sconce, spesso mi legava e dopo che lui aveva finito, mi accarezzava e mi massaggiava con delle creme lenitive. Non ho mai capito cosa provasse quella donna.
Carlo mi faceva spogliare, poi iniziava a colpirmi, spesso nella stanza da bagno, da dove se gridavo non si sentiva nel palazzo.
Gli piaceva bagnarmi, prima, sia con l’acqua che con i suoi liquidi.
Picchiava con la bacchetta, sottile e cattiva. Prendeva dappertutto, a volte si dedicava ai piedi e alle cosce, altre al culo e altre ancora ai seni, io mi ribellavo ma sapevo che era peggio.
Delle sere ci chiudevamo in bagno e io mi mettevo nuda nella vasca, mentre lui sedeva su uno sgabello.
La sua donna mi riempiva d’acqua tiepida con una grossa siringa, a volte l’ano altre volte la vagina. Mi gonfiavo tutta e dopo mi svuotavo nella vasca. La vergogna diventò parte del gioco dell’umiliazione.
Peggio venivo trattata e più perdevo ogni rispetto di me stessa. Ricordo che i clisteri, non erano dolorosi ma mi debilitavano. Mi sorpresero perchè non ne avevo mai ricevuto uno in vita mia.
Era pazzo di me, glielo leggevo negli occhi.
Alla fine di ogni “lezione” pretendeva sempre di venirmi tutto dentro: era la sua fissazione. Diceva che il suo sperma era una parte di lui che io dovevo portar via con me.
Un giorno la brama di farmi sua esplose. Sapeva che non mi piacevano gli aghi! La macchia di sangue sulla carne chiara mi sgomentava e potevo anche svenire.
La sua mente perversa gli fece tentare l’indicibile: venne in un’ampolla, mentre mi tastava i seni e la vagina con la mano libera.
Subito dopo, pretendeva di iniettarmi il seme, sospeso nella soluzione fisiologica direttamente in vena.
Scappai via, ancora mezza nuda.
Pioveva e, miracolosamente, la pioggia mi lavò di dosso quell’anno di follia.
Ora riesco ad essere una donna normale, il che sorprende anche me, e di tutta questa orribile storia non ho mai avuto il coraggio di parlarne, nemmeno all’uomo che ho sposato, potrebbe farsi strane idee ed io…
Io ho ancora paura degli aghi!
© – Giovanna Esse 2014 – 2020
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