Ciao Giovanna, ti racconto la mia storia, un po’ per il piacere di farlo e anche per una forma di piccola vendetta personale nei confronti di mio marito, affermato professionista calabrese. Un bell’uomo di buona famiglia e, a modo suo, bravo padre e (secondo la mentalità disgustosa e antiquata che ci circonda) anche buon marito.
Il mio “bravo” marito però non sa che uno dei suoi amici di gioventù è gay. Amedeo è molto affezionato a me sin da ragazzo; mi confidava tutto e mi avvertiva anche quando “il maritino” stava per combinare qualche marachella. Grazie alle sue soffiate, all’inizio del matrimonio sono riuscita a beccarlo mentre si stava organizzando qualche avventura con qualche zoccoletta senza scrupoli. In linea di massima l’ho perdonavo, anche perchè in Sila l’inverno è lungo e fare i separati in casa a trent’anni, per una donna… è dura. Poi, dopo un periodo di quiete, me l’ha fatta veramente sporca e da allora siamo stati in sostanza divisi quasi dieci anni. Praticamente mi ero scordata persino come si fa all’amore. In poche parole, il mio congiunto (approfittando del fatto che ero impegnata e addolorata per la malattia di mio padre, culminata con un trapianto del fegato) si scopava la baby sitter, una ragazzotta di paese, appena maggiorenne.
Difficile immaginarla come donna; difficile immaginarla interessante per un uomo come lui. Un professionista affermato che, volendo, avrebbe potuto permettersi veramente di meglio ma non finisce qui.
Tornata da Torino, stanca e distrutta, in paese trovai lui nero e lei disperata. La ragazza mi raccontò che un giovane l’aveva messa incinta e adesso non poteva dirlo a casa, altrimenti il padre l’avrebbe uccisa. Ne parlai con mio marito ma lui disse che la detestava e che non era che una zoccola: niente a che vedere con una“santa” donna come me. Infatti “la santa” era una donna adulta e avrei potuto essere sua mamma. Mi feci carico del suo guaio, ben conoscendo la mentalità retrograda di quei piccoli centri di montagna. Alla fine, grazie alle mie amicizie e sacrificandomi personalmente (ed economicamente) riuscimmo a farla abortire, pur di non negarle un futuro: la ragazza altrimenti sarebbe stata segnata a vita. Pochi giorni dopo il fattaccio tutti ritornarono felici e contenti.
Qualche mese più tardi dissi a mio marito che Teresa a casa non serviva più: che fare? Lui prese la palla al balzo e disse: – Sai che possiamo fare? Adesso che con i miei soci abbiamo aperto lo studio più grande, la posso far assumere da noi, tanto lei il diploma se l’è già preso! Soluzione perfetta pensai: ormai avevo preso a cuore la situazione della “povera pastorella”.
Dopo un anno però il mondo mi crollò addosso!
Amedeo, il nostro amico gay, litigò di brutto con mio marito e per togliersi la pietra dalla scarpa, mi fece una telefonata di fuoco. – Guarda io non avevo avuto il coraggio di dirtelo – affermò – perchè tu sei una brava donna e non volevo farti più male di quanto già ne hai ricevuto, ma ti avverto: guardati intorno perchè, come diciamo noi, ti hanno messo in mezzo! Ricordati solo questo, tuo marito è un vero porco.
Come un velo di nebbia che si dirada, dinanzi a me la verità venne a galla. Feci un po’ d’indagini discrete e scoprii, poco alla volta, il nido di vespe su cui ero stata seduta senza accorgermi di nulla. Morale della favola: mio marito aveva sedotto la ragazza nonostante avesse venticinque anni di più; quando avevo seguito mio padre a Torino, se l’erano spassata talmente che l’aveva messa incinta e, dulcis in fundo, io stessa l’avevo aiutata per liberarsi del bambino: cosa che mi ripugnava, dal punto di vista morale e religioso.
Adesso che lei lavorava al suo studio erano veri e propri amanti e se la godevano come due piccioncini. Chissà quante volte si erano fatte delle grosse risate pensando a quanto ero stata stupida io. Piantai un enorme casino, li minacciai di brutto e la storia finì. Passai poi un lungo, brutto periodo chiusa in casa a piangere e a soffrire ripensando a ciò che avevo vissuto.
I rapporti con mio marito erano sempre tesi e abbiamo dormito divisi per anni. Anche lui prese una brutta botta. Finita la storia malefica con quella ragazza che lo aveva fatto sentire un “giovanotto” e che, tra l’altro, gli aveva spillato un sacco di quattrini, si era ritrovato, alle soglie della vecchiaia, solo e malvisto. Il paese è piccolo, la gente parla e la sua tresca era diventata di dominio pubblico.
Dal canto mio ho undici anni meno di lui e, nonostante tutto, sono ancora una donna apprezzata. Non sono altissima ma il mio corpo e ben proporzionato; una vita sana e l’aria buona mi hanno permesso di conservare un fisico tonico e formoso. Le gravidanze mi hanno riempito e fatta più donna: mi vesto in maniera classica, mai volgare e porto sempre la gonna. In questo mondo di ragazze che girano in jeans tagliati male e strappati, le mie gambe nervose, trattenute dalle calze di seta nere, e le scarpe eleganti che scelgo attraggono ancora degli sguardi vogliosi, persino da parte dei più giovani. Dopo un anno cupo e sofferto arrivò la telefonata che mi ha cambiato la vita. Era padre Fulvio, un prete che si occupa di volontariato a favore dei disabili e dei trapiantati, conosciuto a Torino nell’ospedale. Era tutto contento perchè mi doveva fare una bella sorpresa: padre Fulvio era a pochi passi dal mio paese, a Siderno Marina. D’estate organizzavano delle settimane di colonia per i giovani con difficoltà. Mi disse di scuotermi dal mio torpore e di andarlo a trovare per passare una giornata diversa. Volli spezzare la catena e uscire finalmente dalle mie quattro mura, così pochi giorni dopo, accompagnata da mio figlio, raggiunsi Siderno e passai veramente una bella giornata. Poi, il prete mi fece una proposta: perchè non rendermi utile agli altri facendo del volontariato? Insomma mi chiese di occuparmi, per le due settimane successive, aiutando i ragazzi del prossimo turno. Non risposi subito di sì, nonostante tutto sono sempre una donna all’antica e volevo parlarne con mio marito.
Lui fu entusiasta, non sopportava più tanta tensione, e sperava che, rompendo la routine, qualcosa sarebbe cambiato anche tra di noi. Così, nel mese di Agosto, partii con il mio borsone come una studentessa alle prime armi. Portai perfino il costume da bagno… era da tanto che non andavo al mare. Avendo avuto anche un figlio maschio non ebbi nessuna remora a trattare con quei giovani, purtroppo diversamente abili a causa di varie patologie. Da loro imparai l’allegria e la gioia di sorridere anche con poco, imparai ad apprezzare le piccole cose che sono sempre le più belle. Di giorno li aiutavo insieme alle altre “sorelle”, ci chiamavano così, come fossimo monache. Collaboravo anche a lavarli, li accompagnavo a fare i bisogni, controllavo che tutto fosse in efficienza per non procurare loro altro disagio. Di sera poi, dopo cena, si parlava a lungo specialmente con i più grandi e capii che la cosa che più mancava loro, era il sesso. Scoprii che molti si eccitavano continuamente e si arrangiavano come potevano.
Ce n’era uno Samuele un ragazzo di ventisei anni, che appena lo toccavo si eccitava. Lavargli le parti intime non era facile, perchè il suo pisello, diventava gigantesco e duro e non sapevo come piegarglielo nella vasca del bidet. Nonostante avessi guanti, lo sentivo benissimo in mano. La situazione, dopo il primo imbarazzo, divenne comica e ogni volta ci facevamo un sacco di risate. In me però, nasceva anche una certa eccitazione, perchè erano anni che non facevo niente; quelle risate servivano anche a esorcizzare il mio turbamento.
Una mattina mentre andavo a fa la spesa con Colomba, una donna della mia età esperta di volontariato, portai la discussione su quel fatto: come si comportavano loro con i ragazzi maschi quando questi si eccitavano? – Beh, cara mia, ognuna si comporta come si sente, non esiste una regola… sono giovani e, nonostante tutto, molti hanno le loro pulsioni: arrapano come chiunque. Lo sai no?– mi lanciò uno sguardo d’intesa. – Con un po’ di discrezione, se te la senti, puoi fare come fanno tante altre… potresti dargli… una mano. – Esitai per un poco, poi capii: – Ah, una mano… una mano nel vero senso della parola? – e con le dita mimai il gesto di chi tira una sega a un maschio. Colomba rise di gusto: – Brava, hai capito al volo! –
Due giorni dopo, a Ferragosto, organizzammo la brace sulla spiaggia, portammo una chitarra e cenammo tutti in allegria. Più tardi, la maggior parte tornò alla pensione, mentre alcuni dei giovani più grandi insistettero per restare, almeno per quella notte, sull’arenile. Mi offrii di far loro da assistente e mi lasciarono il pulmino per ritirarci a nostro piacimento. Anche Samuele volle rimanere. Eravamo in quattro: due ragazzi, una ragazza ed io. Chiacchierammo, giocammo e alla fine si doveva pagare pegno: io persi indecorosamente.
Era tardi e sulla spiaggia non c’era quasi nessuno… lontano qualche altro falò, che si spegneva, mentre i nottambuli se ne andavano via. Il buio e l’allegria si resero complici delle nostre parole, il pegno divenne sfida; la sfida divenne tenzone, poi fu un continuo duello di… “e tu? e io; e te la senti, e non te la senti…” eccetera eccetera. Insomma alla fine io ero la vecchia signora borghese che si dice emancipata ma che non sapeva uscire dai luoghi comuni; incapace di trasgredire… di godersela liberamente assecondando i propri desideri.
Il mio pegno prese una piega inaspettata: dovevo avere il coraggio di toccare il membro di Samuele davanti agli altri due. Per stemperare l’atmosfera, mentre arrossivo nell’oscurità, dissi:
– E che ci vuole: è una settimana che glielo tocco… – risi – Caccialo fuori, su, vediamolo questo pisellino! – dissi prendendolo in giro.
– No! – intervenne la ragazza – Devi farlo tu… deve fare tutto da sola, giusto? – disse, mentre cercava la complicità dei suoi amici. Accettai e mi spostai lentamente verso la sedia di tela su cui stava seduto il ragazzo. D’un tratto si fece silenzio e tutti si divennero attenti ai miei gesti. Con gli occhi bassi ma col cuore che batteva all’impazzata, m’inginocchiai davanti a Samuele e iniziai delicatamente ad armeggiare con i bottoni del pantaloncino. Il suo cazzo, da sotto, gonfiava la patta tendendo la stoffa. Lo sentivo sotto le dita. Piano piano lo liberai e adesso il suo affare svettava, duro come la pietra. Nel buio sembrava una grossa melanzana, lo sfiorai con la punta delle dita: – Ecco, toccato. Avete visto, no? – dissi, fingendo di aver terminato il mio compito anche se ero certa che la cosa non sarebbe finita li. Nonostante il fresco della notte estiva bruciavo dentro e anche gli altri ragazzi erano evidentemente eccitati. – E questo lo chiami toccare? – disse la ragazza infilando la mano sotto il costume del giovane accanto a lei: – Glielo devi prendere tutto in mano, così ...
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Giovanna
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Giovanna
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